Democrazia diretta: pubblicati gli atti della conferenza di informazione

DEMOCRAZIA DIRETTASul sito del Consiglio della Provincia Autonoma di Trento sono stati pubblicati gli atti della conferenza di informazione sulla democrazia diretta che si è tenuta a Trento il 1 luglio 2014.

Valorizzazione degli istituti di democrazia diretta e degli strumenti di partecipazione dei cittadini all’elaborazione delle politiche pubbliche (documento PDF)

INDICE CONFERENZA DI INFORMAZIONE

pag. 5 – programma dell’incontro
pag. 6 – richiesta conferenza

INTERVENTI PRELIMINARI

pag. 7 – Intervento di apertura del sig. Roberto Caliari – membro del Consiglio delle autonomie locali

pag. 7 – Intervento introduttivo del Presidente del Consiglio provinciale Bruno Dorigatti

pag. 9 – Intervento del consigliere provinciale Lorenzo Baratter – (Gruppo consiliare Partito Autonomista Trentino Tirolese)

RELAZIONI

pag. 10 – Inquadramento di carattere generale sugli istituti di democrazia diretta
Prof. Roberto ToniattiProfessore ordinario di diritto costituzionale facoltà di giurisprudenza Trento

pag. 17 – L’esperienza referendaria valdostana e considerazioni sui temi delle riforme e della partecipazione popolare per migliorare l’efficacia dell’azione del governo locale
Prof. Avv.to Roberto LouvinProfessore associato di diritto pubblico comparato – Università della Calabria

pag. 22 – Democrazia partecipativa e democrazia deliberativa: riflessioni sull’esperienza toscana
Dott. Antonio FloridiaDirigente del Settore “Politiche per la partecipazione” – Regione Toscana

pag. 29 – La democrazia diretta in Svizzera: gli strumenti della democrazia diretta moderna esistenti nel Cantone di Neuchàtel, gli effetti sui rappresentanti, sui partiti, sui cittadini e sull’economia
Prof. Leonello ZaquiniProfessore onorario delle HE-ARC-Ingegnerie – University of applied sciences – Western Switzerland – Consigliere Comunale della citta di Le Locle

pag. 34 – I media civici, strumento di informazione e di partecipazione per le istituzioni democratiche
Dott. Luca De BiasePresidente Fondazione Ahref

INTERVENTI DEI CONSIGLIERI E DEGLI ALTRI PARTECIPANTI

pag. 38 – Intervento dell’Assessore alla coesione territoriale, urbanistica, enti locali ed edilizia abitativa – Provincia autonoma di Trento – Carlo Daldoss

pag. 40 – GIOVANNI CERI – Associazione Quorum zero più democrazia

pag. 41 – ON. RICCARDO FRACCARO – Movimento 5 Stelle

pag. 42 – SIMONETTA FEDRIZZI – Presidente della Commissione pari opportunità

pag. 44 – STEFANO LONGANO – Estensore del disegno di legge di iniziativa popolare “Iniziativa politica dei cittadini. Disciplina della partecipazione popolare, dell’iniziativa legislativa popolare, dei referendum e modificazioni della legge elettorale provinciale”

pag. 45 – LUCIA FRONZA CREPAZ -Formatrice della Scuola di preparazione sociale – Trento

pag. 46 – ALEX MARINI – Primo firmatario disegno di legge di iniziativa popolare – “Iniziativa politica dei cittadini. Disciplina della partecipazione popolare, dell’iniziativa legislativa popolare, dei referendum e modificazioni della legge elettorale provinciale”

pag. 46 – ARMANDO STEFANI – Presidente della Circoscrizione Argentario – Trento

pag. 47 – DOTT. THOMAS BENEDIKTER – Economista e collaboratore dell’Istituto per i diritti delle minoranze – Eurac

ROBERTO CALIARI – membro del Consiglio delle autonomie locali
– Buongiorno a tutti. Io sono Roberto Caliari, membro del Consiglio delle autonomie, Assessore competente, in assenza del nostro presidente Paride Gianmoena tocca a me portare un cordiale saluto e un benvenuto in questa sala.
È un onore per il Consorzio dei Comuni e per il Consiglio delle autonomie ospitare questo importante momento formativo. È un tema sicuramente affascinante e importante, un tema sul quale dobbiamo tutti interrogarci, in un momento in cui la nostra società è in evoluzione rapidissima, grazie anche a tanti sistemi informatici e di contatto velocissimo fra persone.
Non voglio rubarvi altri minuti, mi preme però salutare il Presidente del Consiglio e il già Presidente del Consiglio delle autonomie, Marino Simoni.
Buon lavoro e buona giornata.

BRUNO DORIGATTI – Presidente del Consiglio provinciale
– Porgo anch’io un saluto di benvenuto a tutti coloro che sono qui presenti, in primo luogo ai Consiglieri, all’Assessore Daldoss, agli amministratori locali, ai relatori e agli ospiti invitati a questa conferenza, in ragione della loro particolare competenza, qualificazione professionale o in funzione della rappresentanza di enti, istituzioni, organismi impegnati nella tutela degli interessi afferenti ai temi oggi in discussione.
Quella di oggi è la prima conferenza di informazione di questa legislatura. Essa affronta il tema della valorizzazione degli istituti di democrazia diretta e degli strumenti di partecipazione dei cittadini all’elaborazione delle politiche pubbliche.
La conferenza è stata richiesta da tre Consiglieri, Presidenti dei rispettivi gruppi consiliari, che nell’ordine di sottoscrizione sono: il Consigliere Baratter, il Consigliere Manica e il Consigliere Passamani.
Non è certo mia intenzione, in questo breve intervento introduttivo, affrontare la tematica che oggi andiamo ad approfondire. Mi limito qui a rilevare che i temi del coinvolgimento dei cittadini e della partecipazione popolare, attraverso i variegati strumenti legislativi e non, in cui essa si concretizza, sono di grande interesse e di grande attualità.
Viviamo, infatti, una fase complessa, nella quale assistiamo a un progressivo indebolimento della democrazia rappresentativa, che si rende evidente in varie forme: il costante aumento dell’astensione nei momenti elettorali, la crisi dei partiti nella loro forma tradizionale, fino ad una sostanziale trasformazione dello stesso sistema pubblico di autorità.
Dobbiamo essere in grado, dunque, di interpretare il sistema democratico come struttura articolata, nel quale si intrecciano ambiti e livelli diversi di organizzazione democratica, non solo sul piano del modello istituzionale ma anche in quello dell’azione politica e sociale dei diversi soggetti che vi partecipano.
Penso alla democrazia rappresentativa, alla democrazia partecipativa e alla democrazia associativa: vanno considerati come livelli diversi di un medesimo sistema, che devono interagire positivamente, combinando le positività di ognuno, ma senza perdere mai di vista la necessità di sintesi politica della rappresentanza istituzionale.
L’obiettivo, dunque, è quello di valorizzare tutte le forme di impegno civico, dei saperi e delle competenze diffusi nella società anche attraverso le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, quali strumenti di partecipazione e di coesione sociale volti a promuovere la cultura della cittadinanza attiva, l’inclusione dei soggetti deboli, l’emersione degli interessi diffusi o scarsamente rappresentati.
In questo senso il tema dei media civici, oggetto di una delle relazioni in programma, è al centro da tempo degli interessi del Consiglio provinciale.
La richiesta di questa conferenza di informazione si innesta sul disegno di legge di iniziativa popolare presentato il 19 luglio 2012, riguardante “Iniziativa politica dei cittadini. Disciplina della partecipazione popolare, dell’iniziativa legislativa popolare, dei referendum e modificazione della legge elettorale provinciale”, il cui primo proponente è il signor Alex Marini.
L’iniziativa legislativa si pone l’obiettivo di riscrivere la materia attualmente disciplinata dalla legge sui referendum, la legge provinciale del 5 marzo 2003 n. 3, oggetto di abrogazione.
Ricordo che il disegno di legge di iniziativa popolare, risalente alla scorsa legislatura e automaticamente ripreso in forza di specifica disposizione regolamentare, nell’originaria formulazione, anche nella XIV legislatura, è stato oggetto di ampio approfondimento istruttorio da parte della Prima Commissione consiliare permanente, che ha concluso i lavori lo scorso 17 giugno. Il disegno di legge si appresta ora ad affrontare l’esame d’aula.
Mi preme evidenziare, soprattutto a chi non fa parte dell’assemblea legislativa e partecipa per la prima volta a questo tipo di incontro, qualche breve annotazione sui tratti essenziali dell’istituto della conferenza di informazione. Si tratta di un istituto previsto dal Regolamento interno del Consiglio, all’articolo 150, quale strumento di informazione e di aggiornamento rivolto essenzialmente ai Consiglieri provinciali. Non è, quindi, uno strumento di governo in senso stretto, qui non si prendono decisioni di indirizzo politico.
Si tratta, quindi, di un istituto finalizzato essenzialmente ad acquisire dati conoscitivi, informazioni, approfondimenti che potranno essere utili per la futura azione politica dei Consiglieri nell’ambito della funzione legislativa, di indirizzo e di controllo politico.
La conferenza di informazione nasce da una richiesta formulata dagli stessi Consiglieri ed è un seminario riservato principalmente a loro e ad altri soggetti invitati.
Non è, quindi, un convegno aperto al pubblico, a cui tutta la cittadinanza è invitata a partecipare.
Ancorché il regolamento del Consiglio abbia voluto puntualizzare questa funzione di supporto conoscitivo, riservata in via specifica ed esclusiva all’attività dei Consiglieri, abbiamo voluto assicurare un ampio coinvolgimento dei soggetti pubblici e privati. Abbiamo dato adeguata e preventiva pubblicità dell’iniziativa sul sito del Consiglio, sui quotidiani locali, consentendo così la partecipazione a quanti interessati all’iniziativa ne abbiano fatto richiesta.
Il nucleo essenziale della conferenza è costituito da una serie di relazioni, cui segue la fase del dibattito: in esso trovano spazio gli interventi dei Consiglieri e degli altri partecipanti, è possibile formulare richieste di approfondimento e proporre riflessioni sul tema. In questo daremo, ovviamente, la precedenza ai Consiglieri, in base alle richieste di intervento. Pertanto mi riservo di stabilire tempi e modalità degli interventi, anche in relazione all’evolversi dei lavori.
A tutti abbiamo consegnato una cartella contenente, tra l’altro, la documentazione normativa e di supporto e altri documenti che presenteremo nel corso della conferenza, che saranno distribuiti successivamente.
Gli interventi che verranno effettuati nel corso della conferenza sono videoregistrati. Abbiamo anche la possibilità di seguire i lavori, per la prima volta, in diretta streaming, gli interventi verranno resocontati e, successivamente, resi disponibili anche sul sito del Consiglio provinciale.
La parola ora al Consigliere Baratter, capogruppo del PAT e cofirmatario della richiesta di conferenza, che illustrerà brevemente le ragioni, gli obiettivi e le finalità di questa conferenza.
Vi ringrazio e auguro a tutti buon lavoro.

LORENZO BARATTER – Consigliere provinciale (Gruppo consiliare Partito Autonomista Trentino Tirolese)
– Innanzitutto grazie a tutti. Voglio portare il saluto dei colleghi Manica e Passamani, con i quali abbiamo deciso di aderire alla proposta di organizzazione di una conferenza di informazione.
Voglio ringraziare il Presidente del Consiglio provinciale, che ha egregiamente illustrato le motivazioni e le ragioni di questa iniziativa. Voglio inoltre ringraziare gli uffici del Consiglio provinciale per aver collaborato agli aspetti logistici e organizzativi di questo evento. Naturalmente ringrazio il Consiglio delle autonomie, che ci ospita, in particolare Roberto Caliari. Saluto e ringrazio per la sua presenza anche l’Assessore Carlo Daldoss, in rappresentanza della Giunta provinciale.
Ringrazio e saluto naturalmente anche Alex Marini, quale primo firmatario del disegno di legge di iniziativa popolare, che è stato sottoscritto da 4.000 cittadini trentini. Noi crediamo che questa conferenza di informazione sia un momento importante di approfondimento, su una materia sicuramente primaria, in questo momento, ovvero il tema della democrazia diretta.
Peraltro consentitemi di ringraziare Luca Zeni, Presidente della Prima Commissione permanente del Consiglio provinciale, che recentemente, il 17 giugno, ha licenziato il disegno di legge e lo ha rinviato integralmente in aula, dove verrà prossimamente discusso.
In vista della discussione, abbiamo ritenuto importante chiamare dei relatori altamente qualificati a questo tavolo, per questo momento di incontro, di discussione e riflessione, per capire meglio cos’è la democrazia diretta, che cosa sono gli istituti della democrazia diretta.
Voglio, pertanto, ringraziare il professor Roberto Toniatti, professore ordinario di Diritto costituzionale alla Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Trento; il professor avvocato Roberto Louvin, professore associato di Diritto pubblico comparato all’Università della Calabria; il dottor Antonio Floridia, dirigente del Settore politiche per la partecipazione per la Regione Toscana; il professor Leonello Zaquini, professor onorario in Svizzera e Consigliere comunale della città Le Locle; e poi il dottor Luca De Biase, Presidente della Fondazione Ahref, che si occupa del tema, assolutamente importante, dei media civici.
Voglio fare una piccola riflessione conclusiva, dicendo che sarà poi compito dell’assemblea legislativa del Consiglio provinciale, in autonomia, affrontare il disegno di legge. Alcune riflessioni sono già state avviate, quantomeno all’interno della maggioranza.
All’interno di quella discussione verranno portate delle proposte che hanno, come obiettivo, quello di intervenire su questa proposta. Il Consiglio provinciale non è un mero organo di vidimazione del disegno di legge, ma un organo all’interno del quale ci saranno delle proposte e delle modifiche che verranno apportate. Su questo stiamo ancora ragionando.
Voglio anche sottolineare questo aspetto: è un momento difficile anche per la politica. La democrazia diretta, il coinvolgimento dei cittadini, il concetto di cittadinanza attiva sono concetti importanti. Dobbiamo individuare tutte le strade possibili per coinvolgere nei processi decisionali i cittadini. In questo senso l’impianto di questo disegno di legge è assolutamente condivisibile.
Consentitemi di dire però, con altrettanta franchezza, che – sebbene non sia intenzione di questo disegno di legge, credo sia opportuno dirlo – non intendiamo mettere in discussione il valore della democrazia rappresentativa, che per noi continua ad essere, nonostante le criticità del presente e le difficoltà che vive la politica, un caposaldo irrinunciabile e primario della democrazia.
Nel dare la parola ai nostri relatori, voglio augurare a tutti una buona conferenza e vi ringrazio ancora per la numerosa partecipazione.

BRUNO DORIGATTI – Presidente del Consiglio provinciale –
Grazie al Consigliere Baratter. Possiamo iniziare ora con le relazioni della mattinata, dando la parola al professor Toniatti, professore ordinario di Diritto costituzionale della Facoltà di giurisprudenza, che ci parlerà dell’inquadramento di carattere generale degli istituti della democrazia diretta.
Ringrazio il professore per la sua presenza.

PROF. ROBERTO TONIATTI – Professore ordinario di diritto costituzionale facoltà di giurisprudenza Trento
– Sono io che ringrazio, Presidente, per questo cortese invito che mi dà modo di contribuire alla prosecuzione dei lavori dell’assemblea legislativa. Dico “proseguire”, perché ho già avuto modo di essere stato invitato ad una audizione della Prima Commissione, nel corso della legislatura passata, e penso che, da qualche parte, vi sia traccia di quegli interventi. Era stato un incontro, lo ricordo, molto ricco dal punto di vista del dibattito e di confronto delle idee. Aveva il pregio di vertere sul testo di una particolare proposta di iniziativa legislativa.
Oggi sono chiamato ad un ruolo diverso, quello di dare un inquadramento generale sugli istituti di democrazia diretta, con espresso riguardo all’ordinamento italiano e ad altri ordinamenti, cosa che mi è congeniale proprio perché i miei interessi sono sempre sul versante della comparazione.
La prima premessa: la finalità di questa conferenza di informazione, secondo le intenzioni che sono state testé ricordate, da parte dei promotori, è un approfondimento di conoscenza, ma non scevro dal giudizio di valore, intanto in quanto la finalità stessa della conferenza viene indicata nel senso della valorizzazione circa l’adeguamento degli istituti di democrazia diretta agli standard internazionali e dei paesi più sviluppati.
Da questo punto di vista, sarà mio impegno dare un contributo che vada nel segno della valorizzazione. Evidentemente, da giurista, la valorizzazione nel rispetto del diritto, ma questo è già stato detto.
In quanto giurista intendo soffermarmi su profili giuridici e non intendo, quindi, esprimere valutazioni di filosofia del diritto, di filosofia politica o di scienza della politica, circa i meriti o i demeriti, in sé, del concetto di democrazia diretta. Nel diritto, peraltro, tutto è relativo, tutto è vincolato a rapporti di legittimità e di conformità con le norme superiori dell’ordinamento e, quindi, certi giudizi riduttivi saranno una conseguenza di questa circostanza.
Non intendo fare delle valutazioni di filosofia politica o di scienza della politica, ma con due eccezioni, che, peraltro, credo siano coerenti con la mia impostazione da costituzionalista.
La prima consiste nel richiamare una nozione di democrazia plebiscitaria, che si configura come un uso autoritario degli stessi strumenti di democrazia diretta. Potrei fare una serie di esempi, dall’approvazione quasi unanime della Costituzione del Cile, scritta da Pinochet, alla Costituzione turca del 1982, e altri.
È ovvio che la democrazia plebiscitaria non è all’ordine del giorno in questa sede, non è nelle intenzioni dei promotori, ma penso sia particolarmente utile ragionare, soprattutto per il legislatore, sapendo che anche i migliori istituti si prestano ad un uso degenerativo.
Lo dico perché in Italia si è fatta e si fa ancora l’esperienza non della democrazia plebiscitaria ma della democrazia della comunicazione e dei sondaggi, della democrazia dei media, una democrazia in cui l’annuncio di una riforma già fatta è merce di contrabbando per l’avvio di una riflessione in materia di quella riforma. Forse parlo da gufo, ma pazienza.
Sempre in via preliminare, la seconda considerazione che vorrei fare consiste nell’esprimere una qualche cautela sul pericolo di una valorizzazione della democrazia diretta solo in funzione di una rivalorizzazione della democrazia rappresentativa, che dichiaratamente è stata in crisi.
Mentre la prima è forse una cautela, che si rivolgeva ai sostenitori della democrazia diretta, questa volta si tratta di una cautela che si rivolge, invece, a chi sostiene la democrazia rappresentativa, perché ci troviamo di fronte al pericolo di una strumentalizzazione della democrazia diretta, semplicemente per acquisire consenso in favore della democrazia rappresentativa. È una strumentalizzazione provvisoria e simulata, volta a riguadagnare quel rapporto di fiducia fra governanti e governati che, invece, è il fulcro della democrazia rappresentativa.
Da questo punto di vista, credo si possa inquadrare lo strumento dell’iniziativa dei cittadini, che è stato introdotto nel Trattato dell’Unione europea da parte del Trattato di Lisbona, perché, quasi presi dalla disperazione, si è tentato di dare uno strumento di legittimazione popolare al procedimento di integrazione europea.
Queste sono le due cautele di natura politologica, che ho voluto porre alla vostra attenzione. Per il resto, il mio intervento intende privilegiare i profili di diritto costituzionale comparato e italiano, ma anche del diritto statutario, della Provincia Autonoma di Trento.
La mia relazione intende collocare la trattazione della democrazia diretta nel contesto della democrazia costituzionale, ossia della democrazia secondo il diritto.
Il sostantivo “democrazia”, infatti, è divenuto di per sé quasi privo di un proprio significato intrinseco, in quanto oggetto di diffusa, costante e generalizzata banalizzazione e strumentalizzazione, venendo utilizzato per l’autoqualificazione di regimi politici e di forze politiche di ogni sorta, e divenendo, di conseguenza, scarsamente connotativo.
La formula esplicativa “democrazia come governo del popolo” esprime, dunque, una forte comunicazione ideologica o simbolica, che si rivela essenziale anche per il diritto, ma che in una prospettiva di diritto costituzionale comparato si rivelerebbe inadeguata, imprecisa e insufficiente, qualora rimanesse isolata dall’intero contesto costituzionale.
Per quanto riguarda l’Italia, sarebbe sufficiente dire che l’Italia è una Repubblica democratica – primo comma dell’articolo 1 – senza fare riferimento al secondo comma, “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
Dire che l’Italia è una Repubblica democratica significa che la sovranità appartiene al popolo, originariamente, continuativamente e costantemente. Al popolo appartiene la sovranità, in virtù della quale il popolo si pone come autorità, rispetto alla quale non è dato trovare un’autorità superiore, di qualsivoglia natura, ma questa statuizione prescrittiva ci dice anche che la sovranità del popolo non equivale ad arbitrio e a discrezionalità politica assoluta, illimitata e ragionevole; non equivale a piena disponibilità del bene comune, ma si esprime sempre e soltanto attraverso un esercizio che sia riconoscibile e sia riconosciuto essere conforme alle forme e ai limiti previsti e prescritti dalla Costituzione.
In altre parole, non esiste una sovranità del popolo, che possa esercitarsi al di fuori delle forme e dei limiti della Costituzione. La sovranità esiste solo ed esclusivamente quale sovranità costituzionale e, dunque, la democrazia italiana è democrazia costituzionale, democrazia sovrana, fondata sul diritto e modellata dalla Costituzione.
Dico questo perché non in tutti gli ordinamenti la sovranità si qualifica in questi termini: per esempio nell’ordinamento britannico esiste solo la sovranità parlamentare; in Israele esiste solo la sovranità parlamentare ed è proprio in nome della sovranità parlamentare che non si approva una Costituzione rigida, sottoposta a limiti per la sua revisione.
Il principio, dunque, non è così universale da non soffrire delle eccezioni.
Inoltre il richiamo al concetto di sovranità equivale a giuridicizzare la titolarità della sovranità stessa, cioè a fare in modo che la materia non sia tutta ideologica o speculativa, ma sia da ricondurre alla dimensione giuridica e agli strumenti che ne garantiscono l’effettività.
È accurato, per il giurista, il tentativo parziale di cogliere nel concetto di democrazia la fondamentale natura di metodo deliberativo e, di conseguenza, di ricondurne il significato al principio maggioritario.
Democrazia, dunque, come governo della maggioranza – non governo del popolo ma governo della maggioranza – in quanto il criterio maggioritario rappresenta un metodo sufficientemente equo, pratico, ragionevole e condivisibile, rispetto al criterio della deliberazione unanime, difficilmente raggiungibile, ovvero della deliberazione minoritaria – che pure è esistita, anche se non ha molto senso nel nostro contesto – per l’adozione di decisioni collettive che toccano l’interesse generale.
La decisione maggioritaria non è necessariamente la decisione migliore dal punto di vista del suo contenuto. Il fatto di essere in tanti a sbagliare, non implica che non si sbagli, ma è la migliore solo in quanto decisione condivisa, tanto nel merito quanto nella responsabilità.
È noto Winston Churchill: “La democrazia è un pessimo sistema, ma è migliore di tutti gli altri, perché è meglio contare le teste che tagliarle”, “to count rather than cut”.
La storia tuttavia ci ha insegnato – e la teoria ha elaborato i corrispondenti correttivi – che la legalità maggioritaria non è sempre sinonimo di legittimità, nel senso di conformità a contenuti assiologici predeterminati e, dunque, di rispetto per taluni valori.
La legislazione razzista italiana del 1938 era del tutto legale, era stata regolarmente approvata dalle Camere, era stata sanzionata dal re, era stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, era stata applicata dall’amministrazione e dalla giurisdizione; ma altrettanto, questa legislazione, era del tutto illegittima rispetto al riconoscimento e alla tutela di diritti fondamentali, quali il principio di eguaglianza e di non discriminazione, la libertà religiosa, di opinione eccetera.
Ecco allora che la democrazia formale o procedurale, senza rinnegare se stessa, diventa più complessa e viene a ricomprendere in sé due ulteriori contenuti correttivi: in primo luogo il ricorso a procedure aggravate e maggioranze qualificate, per le deliberazioni correttive in determinate materie, per esempio la revisione della Costituzione, quindi siamo di fronte a strumenti più che maggioritari; ma la democrazia costituzionale italiana si avvale anche del controllo di legittimità costituzionale delle leggi e teniamo presente che, se in Italia esiste solo il controllo di legittimità costituzionale delle leggi e delle richieste di referendum abrogativo, in altri ordinamenti, per esempio in Germania, il controllo di legittimità costituzionale ha ad oggetto, cito letteralmente, “ogni atto del potere pubblico”. Voi capite bene che ogni atto del potere pubblico riguarda decisioni legislative, amministrative e giurisdizionali.
Ecco, dunque, che abbiamo un controllo della legittimità formale, che ha ad oggetto il rispetto della procedura aggravata, ma anche il controllo di legittimità sostanziale. Il controllo verte, dunque, sui contenuti e, pertanto, si tratta di verifica della conformità delle norme ordinarie rispetto ai valori costituzionali.
Da questo punto di vista la democrazia costituzionale si pone come alternativa ad una concezione di democrazia radicale o di democrazia tout court.
Nella tradizione del costituzionalismo euro- atlantico, o costituzionalismo occidentale, il fondamento delle forme di governo è la democrazia rappresentativa, sull’investitura popolare diretta – quindi presidenzialismo statunitense o semi-presidenzialismo francese, polacco, rumeno o russo – o indiretta, con l’intermediazione del Parlamento, a sua volta eletto direttamente, dell’organo di governo.
Occorre dire che l’operare congiunto del sistema elettorale e del sistema politico – quindi la legge, ma anche l’autodisciplina del sistema politico – consente un funzionamento di fatto, ma non di diritto, anche dell’elezione indiretta, secondo i criteri dell’elezione diretta.
In Germania, in Spagna, nel Regno Unito, l’elettore vota per un candidato al posto di Primo ministro; ma in fondo anche in Italia, negli anni ’90 e nella prima decade del 2000, si è ottenuto questo effetto con l’introduzione del nome del candidato Presidente del Consiglio dei ministri sui simboli della lista elettorale, anche se poi la natura parlamentare della forma di governo – e, perlomeno in Italia, anche il ruolo del Presidente della Repubblica
– consente la sostituzione del Primo ministro nel corso della legislatura, com’è capitato in Germania e nel Regno Unito più di una volta: pensiamo al caso eclatante della signora Thatcher, che è stata destituita per decisione del partito ed ha avuto un successore nel corso della stessa legislatura.
Evidentemente la configurazione dell’elezione diretta del titolare della funzione di governo non è che uno dei contenuti di un concetto ampio di democrazia diretta, in quanto è riferito solo all’investitura dell’organo e non anche all’esercizio della funzione di indirizzo politico, legislativa ed amministrativa, che invece ne rappresenta la componente più significativa.
Dico questo, però, perché nel sistema provinciale trentino ci troviamo esattamente di fronte ad una situazione in cui il titolare della funzione esecutiva, il Presidente della Provincia, è il risultato di un’elezione popolare diretta: da questo punto di vista il sistema ha già acquisito, dal punto di vista dell’investitura democratica degli organi della democrazia rappresentativa, un significato non marginale.
Intesa correttamente in tal senso, cioè nel senso proprio e tradizionale, ossia come esercizio popolare diretto della funzione di indirizzo politico, legislativa ed amministrativa, occorre dire che nella tradizione del costituzionalismo euro-atlantico la democrazia diretta è scarsamente prevista e raramente praticata, evidentemente con l’eccezione della Svizzera.
In altre parole, manca un modello euro- atlantico. Esiste – ed è di enorme interesse – un codice di buona condotta, che è stato adottato dalla Commissione di Venezia, che è la Commissione per la democrazia attraverso il diritto del Consiglio d’Europa, che fra l’altro è stata tradotta in italiano su iniziativa del gruppo del Movimento 5 stelle. Lo dico non per fare pubblicità ad un sistema politico, ma per mettere in evidenza quanto poco è stato fatto da chi c’era prima.
Il Codice di buona condotta dalla Commissione di Venezia – un organo del Consiglio d’Europa – non raccomanda la previsione di alcun istituto di democrazia diretta, ma raccomanda che, una volta previsto dalle leggi dello Stato, sia gestito in modo conforme ai principi di correttezza, oltre che di legittimità.
Stati Uniti e Germania nell’ordinamento federale non conoscono referendum, che invece sono molto diffusi negli Stati Uniti, in almeno la metà degli Stati membri, e molto usati.
Nell’ordinamento britannico non esiste in via permanente, ma viene istituito e disciplinato ad hoc ogni volta che si voglia fare un referendum. Un po’ come era stato fatto in Italia per il referendum consultivo che era stato indetto nel 1979 per conferire poteri costituenti al Parlamento europeo, che per la prima volta si eleggeva direttamente. Era stata approvata una legge costituzionale apposita.
In alcuni ordinamenti – Francia, Portogallo e Spagna – il referendum esiste, però sotto forma di potestà degli organi della democrazia rappresentativa, quindi il governo spesso, con un voto parlamentare, sottopone una questione di voto popolare, a volte con efficacia consultiva e a volte con efficacia deliberativa. In altre parole, l’iniziativa, la predisposizione del quesito, che evidentemente è una questione cruciale, la scelta dei tempi, sono interamente rimessi al governo o alla maggioranza parlamentare e direi che, da questo punto di vista, un istituto di democrazia diretta di iniziativa governativa – o della maggioranza parlamentare – è un cugino della democrazia diretta, non fa parte, a stretto rigore, della democrazia diretta, perché l’iniziativa è la disponibilità del quesito è assolutamente cruciale.
In Francia il referendum è stato – a mio giudizio, ma non solo mio – impropriamente usato dal Presidente De Gaulle, nel 1962, come via alternativa al procedimento di revisione costituzionale, per trasformare l’elezione del Presidente da indiretta a diretta, e il Consiglio costituzionale, allora, si è dichiarato incompetente – e continua a dichiararsi tale – per pronunciarsi sulla legittimità della legge referendaria.
Il referendum è stato usato molto spesso anche materia internazionale, lo dico perché in Italia non sarebbe ammesso per quanto riguarda il referendum abrogativo, ad esempio per confermare l’adesione della Spagna alla Nato, dopo la morte di Franco e il ritorno alla democrazia, e per sancire con il voto popolare la richiesta di adesione all’Unione europea, ovvero la modifica del trattato istitutivo. Ricordiamo i referendum, anche con esito negativo, di Francia e Paesi Bassi sul trattato costituzionale.
Ricordiamo che anche altri due ordinamenti hanno praticato il referendum in materia di Unione europea, cioè Danimarca e Irlanda, per due volte hanno indetto un referendum, che ha dato un esito negativo, la prima volta sul Trattato di Maastricht e la seconda sul Trattato di Lisbona: in entrambi i casi l’esito negativo è parso inadeguato, se n’è organizzato un altro e questa seconda volta l’esito è stato positivo. Certo, vi sono state delle modifiche nel negoziato di adesione, che riguardavano i due paesi, ma è anche vero che si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un uso piuttosto pasticciato dell’istituto di democrazia diretta.
Ricordo, sempre nella prospettiva della valorizzazione, che in questo periodo il mondo del diritto costituzionale sta assistendo ad una rivalutazione della democrazia diretta, segnatamente nella più recente generazione di Costituzioni europee, quelle dell’Europa balcanica, anche se probabilmente si tratta di una reazione all’esperienza della dittatura comunista, appena cessata.
In tutte queste Costituzioni noi troviamo sempre – cito qui l’Albania, perché è la prima in ordine alfabetico – che “il popolo esercita la sovranità attraverso i propri rappresentanti o direttamente”, ma così anche la Croazia, il Kosovo, la Macedonia, dove si dice che il popolo esercita la propria autorità attraverso rappresentanti democraticamente eletti, attraverso il referendum e attraverso altre forme di espressione diretta. In altre parole, la più recente generazione di Costituzioni europee, seppure non di Stati membri dell’Unione europea, non solo valorizza quella che Marco Pannella chiamava “la seconda scheda che ha ogni cittadino”, la scheda referendaria, ma addirittura si costituzionalizzano altre forme di partecipazione: questo mi sembra un dato perlomeno interessante, nella nostra prospettiva.
Montenegro, Serbia, Bulgaria e Romania: l’Europa balcanica è completamente coperta da norme che, normalmente all’articolo 1 o 2, parificano la democrazia rappresentativa alla democrazia diretta.
Quali sono i punti essenziali, la sistematica del referendum, come strumento cardine della democrazia diretta?
Credo sia essenziale la disciplina della titolarità dell’iniziativa: l’iniziativa può essere governativa, può essere di una minoranza parlamentare, può essere di una maggioranza parlamentare, può essere di enti locali. Teniamo presente che, normalmente, certamente negli Stati membri degli Stati Uniti, l’iniziativa è di gruppi militanti, spesso che hanno un solo tema, come finalità, ambientalisti, animalisti eccetera, che non riescono ad operare come lobbies attraverso le sedi della rappresentanza parlamentare, nel bene e nel male. Si tratta di interessi particolari, che cercano evidentemente di trasformarsi in interesse generale e possono operare come lobbies, come attività legittima, disciplinata, nei confronti dei rappresentanti, oppure direttamente, attraverso raccolte di firme, petizioni eccetera. L’iniziativa, dunque, è assolutamente essenziale, come oggetto di disciplina.
Si tratta, evidentemente, di istanze di partecipazione alla decisione pubblica e questa partecipazione può essere configurata come integrativa, per esempio nel caso del referendum confermativo; alternativa o sostitutiva alla decisione politica. Teniamo presente che la partecipazione sostitutiva implica nessuna responsabilità politica in capo ai rappresentanti e questo non è un dato sano per un sistema democratico.
L’oggetto può essere una decisione politica o amministrativa. Spesso, nei casi più interessanti, certamente negli Stati membri degli Stati Uniti, come in Svizzera, la democrazia diretta ricomprende tutta la fase di partecipazione all’esercizio della funzione legislativa, dall’iniziativa legislativa sino al voto, sino alla facoltà di considerare soddisfacente l’eventuale intervento modificatore da parte dell’assemblea legislativa.
Gli effetti possono essere consultivi, ma mi piace pensare che gli effetti giuridicamente consultivi siano pur sempre politicamente vincolanti, e, quindi, il referendum consultivo non è meno invasivo del referendum deliberativo.
I limiti possono essere formali o sostanziali. Faccio presente, in riferimento alla Provincia Autonoma di Trento, che le materie coperte dalle norme di attuazione, a mio giudizio, sono da considerarsi sottratte dalla possibilità di intervento di democrazia diretta perché, in questo caso, il metodo negoziale fra le istituzioni di governo dello Stato e della Provincia autonoma, deve prevalere proprio perché non si sa quale sostituzione vi sarebbe. Faccio presente che è vista normalmente come garanzia dell’autonomia speciale la soppressione del referendum confermativo sulla legge costituzionale, che approva lo Statuto speciale, che è stata acquisita nel 2001. Si dice che la legge costituzionale è il risultato dell’applicazione del metodo negoziale e, quindi, non possiamo sovvertire l’esito di quel particolare negoziato.
A questi due esempi potrei aggiungere anche le norme provinciali o statali che siano la trasposizione obbligata di norme dell’Unione europea. Anche in questo caso non vi sarebbe una responsabilità per violazione del diritto dell’Unione europea, direttamente, da parte della Provincia, ma da parte dello Stato vi sarebbe, quindi, un procedimento di infrazione di fronte alla Corte di giustizia per fatto della Provincia autonoma. Noi sappiamo quanto ampia sia la materia coperta dalle norme di attuazione, sappiamo quanto ampia sia la materia coperta dall’Unione europea. Evidentemente su questo si può dibattere, questa è la mia interpretazione.
Sempre nell’ambito dei limiti, poi, abbiamo tutta la materia dei diritti delle minoranze e ricordiamo la recente esperienza del referendum in materia di Comunità di Valle per quanto riguarda lo Statuto del Comun General de Fassa, che ha avuto una vita separata.
Pensiamo anche, soprattutto da parte di un laico come me, alla tutela delle minoranze religiose. Ha fatto scalpore, ancora una volta, il referendum svizzero sui minareti, proprio perché viene visto come lesivo della tutela della libertà di espressione di una minoranza.
Esistono, evidentemente, altri temi molto importanti: l’informazione, il finanziamento, la valorizzazione di altre forme di partecipazione, ma soprattutto la configurazione della partecipazione, quindi, democrazia diretta in senso molto ampio, comprensivo anche della democrazia partecipativa.
Qui pongo un quesito: è un dovere civico? Teniamo presente che la Costituzione aveva già disciplinato il voto come espressione di un dovere civico, senza sanzione; c’era una piccola sanzione, che poi è stata eliminata. Oggi la Costituzione ancora parla di dovere civico: l’Italia e il Belgio sono gli unici ordinamenti in cui il voto è obbligatorio in Belgio e doveroso in Italia.
Oppure è un onere di cittadinanza, che è la figura che a me sembra più convincente?
È un onere di cittadinanza, che si riferisce alla tutela di interessi particolari, in quanto suscettibili di rappresentare l’interesse generale. L’interesse generale continua, però, ad essere rappresentato – non sappiamo bene cosa succederà in Senato in questi giorni – ma esiste ancora anche il divieto del mandato imperativo, mentre la democrazia diretta pone dei problemi, evidentemente, da questo punto di vista.
Per concludere, la democrazia diretta è uno degli strumenti attraverso i quali, accanto alla democrazia rappresentativa, si esprime la sovranità popolare, in un contesto di democrazia costituzionale e di checks and balances, cioè di controlli ed equilibri. A mio giudizio, quindi, la disciplina degli strumenti di democrazia diretta deve inserirsi in questo contesto di democrazia costituzionale e di checks and balances, di controlli ed equilibri.
L’esperienza italiana, soprattutto sul referendum abrogativo, ci ha insegnato alcune cose. La Corte costituzionale ha riconosciuto il comitato promotore come potere dello Stato e lo ha legittimato ad essere parte di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. Quando il Parlamento, con frode, cito la Corte costituzionale, cercava di scippare – consentitemi l’uso di questo termine – l’iniziativa e l’esito del referendum, la Corte costituzionale ha detto: “No, se alla vigilia del referendum il Parlamento modifica una legge non andando incontro alle richieste del referendum, la richiesta di referendum automaticamente si trasferisce sul nuovo testo di legge”, quindi impedendo al Parlamento di frodare la Costituzione, mentre si pensava di frodare il comitato promotore dei referendum.
A parte questa esperienza, però, in Italia, anche dal punto di vista dell’impegno a garantire l’esito degli istituti di democrazia diretta, è mancato un organo che garantisse la correttezza.
Mi domando se da questo punto di vista la Provincia Autonoma di Trento non possa prevedere un organo che vigili sulla correttezza dello svolgimento, ovvero la correttezza dell’informazione, da questo punto di vista l’Italia è un disastro; la correttezza dei finanziamenti, che devono essere equi per il sì e per il no; la correttezza degli strumenti istituzionali, per esempio la presenza televisiva di esponenti del governo o del Parlamento che, surrettiziamente, fanno promozione per il sì o per il no.
Purtroppo non possiamo prevedere nulla per la Conferenza episcopale italiana, quando raccomanda di astenersi dai referendum che le sono scomodi, ma da questo punto di vista spero che la maturità dei cittadini possa sopperire all’assenza di strumenti normativi.
Ho lasciato per ultimo il problema del quorum. Il quorum non esiste per quanto riguarda il referendum confermativo, per la revisione costituzionale, e questo ha la sua ratio. Credo che il problema del quorum, dove stabilirlo e se stabilirlo, dipenda proprio dalla configurazione che noi abbiamo della partecipazione come onere di cittadinanza che, badate bene, è una concezione molto forte, perché vorrebbe trasformare i cittadini in militanti e questo, in Italia e anche in Trentino, a mio giudizio richiederebbe una rivoluzione antropologica.

BRUNO DORIGATTI – Presidente del Consiglio provinciale
– Passiamo al successivo intervento e passiamo all’esperienza della Val d’Aosta. La relazione sarà tenuta dal professor Louvin, professore associato di Diritto pubblico comparato dell’Università della Calabria.

PROF. AVV.TO ROBERTO LOUVIN – Professore associato di diritto pubblico comparato – Università della Calabria
– Grazie Presidente e grazie a tutti. Mi permetterete di declinare i ringraziamenti nelle tre corporazioni che sono presenti. Una è quella eminentemente politica, che saluto nella persona del Presidente Dorigatti, memore anche di una lunga e felice collaborazione che abbiamo avuto sul piano politico e istituzionale, quando ho avuto il privilegio di presiedere l’Assemblea legislativa della Valle d’Aosta, in una stagione nella quale, vorrei ricordarlo, il centralismo parlamentare era ancora particolarmente sentito e non contestato dal punto di vista dell’opinione pubblica.
Saluto cordialmente i promotori dell’iniziativa, chi milita convintamente e generosamente per allargare finestre di collaborazione tra la cittadinanza e le istituzioni. Mi sento partecipe di questa loro esperienza, avendo avuto, in tempi neanche troppo lontani, l’occasione di accompagnare e guidare delle iniziative referendarie nella mia piccola Regione.
Naturalmente ringrazio anche la corporazione dei giuristi e degli esperti: non può non andare un saluto e un ringraziamento particolare all’amico e collega Roberto Toniatti, che è anche nostro team leader, guida spirituale, in un’esperienza universitaria che unisce giuristi dell’area alpina, in particolare delle autonomie speciali. Un progetto per cui siamo grati alla Provincia di Trento, per l’aiuto e il sostegno che ha dato, il progetto delle autonomie speciali alpine, che mi auguro possa continuare a dare dei frutti che in Valle d’Aosta sono stati anche recentemente molto apprezzati nel corso di una audizione presso il Consiglio regionale.
Mia nonna Emma diceva: mille mestieri, mille miserie. Non va bene fare troppe cose. Io purtroppo ho avuto questo destino, di averne fatte parecchie, tra le altre anche quella di assistere il Consiglio provinciale in una vicenda istituzionale molto delicata, dieci anni fa, in relazione alla richiesta di invalidazione della sua intera elezione, per effetto della legge elettorale che consentiva un meccanismo rotante, tra il Consiglio e la Giunta, per quanto riguardava gli Assessori.
Avete sperimentato, in quella circostanza, un’originalità istituzionale che, per fortuna è stata capita, al di là delle vicende successive, delle scelte che ha fatto l’assemblea nella sua assoluta discrezionalità.
Questo per dire che, comunque, siamo in un contesto di sperimentazioni istituzionali. A Trento, a Bolzano, in Val d’Aosta in particolare – ma avremo anche l’esperienza toscana che, pur non avendo carattere di specialità, eccede nel panorama italiano – siamo delle realtà che hanno il gusto, la voglia, l’azzardo, di sperimentare qualche frontiera nuova, di uscire un po’ dal solco tradizionale, dalla cornice che è stata molto ben ricordata da Roberto.
Siamo delle realtà che hanno ancora delle popolazioni vivaci, al punto da interrogarsi e voler cercare delle soluzioni che, mi auguro, non cerchino solo nella teoria pura della democrazia diretta, ma abbiano la capacità di cercare nella reinterpretazione anche di formule partecipative, di partecipazione civica diffusa, che sono patrimonio comune di tutta l’area alpina.
È vero che la Svizzera è uno Stato estero, ma non dimentichiamo che è il nostro prossimo vicino. Non è una difficoltà confrontarsi con un mondo che, però, ha vissuto per secoli esperienze istituzionali diverse e ha fatto, di quel bisogno, di quella necessità di assunzione di responsabilità da parte della popolazione della comunità, una cifra qualificante del proprio sistema politico.
Noi non abbiamo vissuto in questo stesso contesto, nel dopoguerra. L’interpretazione che è stata data, degli istituti referendari in Italia, è stata molto limitante, sul piano nazionale, dove abbiamo conosciuto solo il referendum abrogativo, dopo l’utilizzo dello strumento referendario per la scelta istituzionale fondamentale dell’opzione per la Repubblica, ma è stata piuttosto mortificante anche a livello locale dove, per tantissimo tempo, non si è praticamente voluto esplorare i benefici e le potenzialità dello strumento referendario.
L’Italia è stata un sistema politico dominato dai partiti. La Repubblica italiana ha avuto, per lunghi decenni, questa occupazione, fin eccessiva e fortemente denunciata, anche nella politica, soprattutto negli anni ’80, sfociando poi in fenomeni di reazione estrema. Credo non si debba aspettare di arrivare agli estremi, ma si debba avere la forza, la capacità, di cercare quella sfera pubblica, di cui parla Hannah Arendt, quel momento di dialogo interno alla cittadinanza, che è il modo di testare quotidianamente la solidità delle istituzioni.
La democrazia rappresentativa, di cui io stesso sono stato parte e convinto paladino, per tanti anni, è una democrazia incompleta, se non ha una forte sfera pubblica nella quale la pedagogia quotidiana del confronto, della mediazione e dell’inclusione dell’altro si possano esercitare.
Ne abbiamo enormemente bisogno e bisogna essere, credo, così lungimiranti, così pazienti, anche, da saper passare fra Scilla e Cariddi, perché abbiamo degli estremi entrambi pericolosi: uno è l’arroccamento delle istituzioni rappresentative in un monopolio del potere – un potere che è stato affidato legittimamente, in sede elettorale – che viene difeso gelosamente, qualche volta anche pervicacemente, rispetto alla volontà della comunità di intervenire su determinate questioni; dall’altra parte c’è l’eccesso, la retorica, l’enfasi eccessiva sugli istituti di democrazia diretta, che a volte vengono usati e sbandierati anche oltre il dovuto e il necessario.
Vorrei poi anche darvi testimonianza di un uso qualche volta distorto degli strumenti referendari: parlerò prevalentemente di questo perché non siamo portatori di grandissime esperienze di dibattito pubblico e di confronto civico sulle grandi opere. Da noi questo bisogno di partecipazione, su grandi scelte politiche, ha dovuto trovare sfogo, si è canalizzato in esperienze referendarie regionali. In qualche caso a proposito, in altri in modo distorto, obiettivamente non coerente con le finalità che erano state attribuite dalla legge allo strumento referendario.
È una fortuna, è bene che ci sia questa richiesta, perché questo rafforza enormemente le stesse istituzioni elettive.
Ne hanno molto bisogno, oggi sono in evidente affanno, anche dal punto di vista del sostegno dell’opinione pubblica. Devono riguadagnare terreno, includendo, progressivamente, in modo graduale, ma convinto, la cittadinanza nelle scelte.
Sono dunque qui a portarvi una piccola testimonianza, ma con una premessa: l’erba del vicino è sempre più verde. Noi siamo sempre portati a dire che quello che succede agli altri, in questo caso i nostri amici svizzeri, funziona meglio, sicuramente loro sono più bravi. Vorrei sfatare questa immagine, c’è una forte componente anche di casualità storica, di accidentalità, in quello che succede nello sviluppo degli ordinamenti.
La nostra vicenda, in particolare quella valdostana, oggi è significativa, perché è la prima e unica Regione nella quale il popolo è diventato legislatore, ha approvato una legge. Non è il frutto di una vera e propria, profonda, convinta maturazione, ma è il frutto di una serie di casualità, di fatalità, forse anche di interpretazioni perfino sbagliate e forzate di alcuni dati normativi, che hanno portato, comunque, allo sviluppo di un certo percorso.
Mi consentirete di parlare un po’ di noi, cosa di buono è stato fatto e quali errori sono stati compiuti, che quindi possono essere evitati altrove.
Nel 1997 ho avuto modo di scrivere un libro sull’ordinamento regionale della Valle d’Aosta e, riguardando il capitolo sugli istituti di democrazia diretta, ho trovato un’estrema povertà. Gli stessi termini con i quali mi esprimevo in quel frangente, una quindicina di anni or sono, non erano particolarmente incoraggianti.
Non avevo capito, non avevo immaginato le potenzialità che potevano esserci e che ci sarebbero state in questa vicenda. Allora altri istituti erano dominanti, si parlava molto della difesa civica, di altri veicoli di tutela dei diritti della cittadinanza. Si parlava molto di rafforzamento delle competenze normative, del Consiglio regionale eccetera: del popolo non si parlava, non era quasi questione.
Fino ad allora c’era stata una sola vicenda referendaria, significativa ma molto “truccata”, perché era stato utilizzato l’unico strumento a disposizione a quel momento, lo strumento di referendum abrogativo regionale, per posizionare la comunità su un tema molto sentito, che era lo svolgimento o meno dei giochi olimpici in Valle d’Aosta.
Si era formato un comitato promotore. Le istituzioni regionali direttamente, senza passare attraverso un coinvolgimento popolare, avevano lanciato l’iniziativa, erano andate a depositare direttamente la candidatura.
Sarebbe stato un impatto fortissimo dal punto di vista urbanistico, delle infrastrutture e questa scelta era stata fatta neanche insieme al Consiglio regionale, ma dalla Giunta regionale, che l’aveva poi sostanzialmente lanciata e proposta.
Nasce così un percorso, che sarebbe stato destinato a cambiare la storia e il percorso di questi successivi vent’anni.
Le esitazioni e le contestazioni che ci furono, in realtà furono poi cavalcate e sfruttate da una parte della politica, che nei mesi successivi era stata estromessa dalla gestione del potere, e ne era nato un referendum che, attraverso l’abrogazione della legge di finanziamento del comitato promotore, faceva dire alla gente se era d’accordo oppure no alla tenuta dei giochi olimpici in Valle d’Aosta.
Una decisione neanche legislativa, fondamentalmente amministrativa, di amministrazione pesante.
Aveva trovato, come strumento per l’espressione della volontà popolare, un referendum abrogativo, quindi uno strumento improprio, una zappa usata in modo anomalo. Tanto più che poi la decisione arrivò a tempo scaduto, dopo che la candidatura era risultata perdente.
La prima questione: il referendum può essere uno strumento usato in modo anomalo, atipico, bisogna che ci sia una pluralità, un ventaglio di soluzioni per permettere il dibattito, la discussione, la maturazione di idee fondamentali. La stessa cosa vale per le opere pubbliche e lo strumento referendario stretto può essere mal utilizzato.
Abbiamo avuto, poi, nel 2000, un secondo referendum abrogativo, che ha toccato un nervo scoperto e un tema delicato. Molto acutamente osservava Roberto Toniatti, poco fa, che bisogna essere cauti nell’uso dello strumento referendario in materia di tutela delle minoranze.
Questo referendum del 2000 in Valle d’Aosta, sempre di natura abrogativa, toccava delle disposizioni, in materia scolastica, relative all’adattamento delle prove di maturità al contesto regionale valdostano di bilinguismo e, in particolare, all’istituzionalizzazione di una prova specifica di lingua francese e la sua spendibilità dal punto di vista amministrativo.
Intervenire su una materia così delicata, come la tutela linguistica, in questo caso nel campo scolastico, per delle finalità di confronto politico, perché sullo sfondo c’era una contrapposizione di natura politico-sindacale tra parte del mondo della scuola e il governo, le forze della politica istituzionale, è stata una scelta molto infelice.
Qui si è rivelato decisivo un momento, quello del vaglio del controllo sulle materie che fanno oggetto di votazione in sede popolare. Con un intervento chirurgico, a mio modo di vedere molto acuto e intelligente, la Commissione istituita dal Consiglio regionale, una commissione tecnica composta da professori universitari, avvocati ed ex giudici della Corte costituzionale, presieduta allora da Giovanni Conso, fece la scelta di intervenire nella modificazione del quesito e in qualche modo svelenì il contenuto, la virulenza di un quesito, che andava sicuramente a stravolgere un equilibrio, un assetto molto delicato in materia di eguaglianza tra le due lingue ufficiali della Regione.
Lo strumento non era adatto, spesso è stato utilizzato in modo improprio e quello che ha permesso di fare un salto di qualità alla Provincia di Bolzano, alla Provincia di Trento e alle altre Regioni a Statuto speciale, è stata la legge costituzionale del 2001, che ha attribuito alle nostre Regioni la possibilità di intervenire sulla forma di governo e sugli istituti referendari, aggiungendo il referendum propositivo.
In realtà nessuno sapeva esattamente cosa fosse, anche nelle Regioni ci sono state interpretazioni molto diverse. Il referendum propositivo in Sardegna non sfocia in una deliberazione di carattere legislativo, non è la trasformazione diretta della volontà dell’opinione dell’elettorato in un testo legislativo.
Da noi e nella Provincia di Bolzano è stata fatta questa scelta: si è deciso di affidare al popolo la possibilità di approvare una legge, innescando un meccanismo potenzialmente di concorrenza tra il popolo, come legislatore, e le istituzioni rappresentative e il Consiglio regionale.
Quello che credo abbia segnato la particolarità e l’interesse delle nostre esperienze è che non si va di colpo ad una contrapposizione fra i due soggetti, ma c’è un lungo percorso in mezzo, percorso che, nel nostro caso, obbliga a passare attraverso un’iniziativa legislativa.
Lo dico anche come persona, che ha dovuto passare ore e giornate ai banchetti a raccogliere le firme, sapendo qual è lo sforzo, la generosità che viene richiesta tanto a chi raccoglie, quanto a chi deve stare lì, come nel nostro caso, come Consiglieri regionali, ad autenticare le firme. Prima di fare ricorso a questa grande operazione di raccolta firme, nella nostra legge regionale si fa un passaggio intermedio, che è fondato sulla raccolta di numero molto limitato di circa trecento firme, di iniziativa legislativa.
Il Consiglio regionale cioè ha l’occasione di confrontarsi, di discutere con il comitato promotore, eventualmente di adottare una propria legge, che può anche recepire solo parzialmente l’iniziativa referendaria, magari dare già soddisfazione, fare già quel lavoro di mediazione che è poi fondamentale, perché si tende troppo a contrapporre un soggetto all’altro.
A volte il soggetto popolare vuole soltanto che siano prese in considerazione determinate ragioni, che alcune cose siano trattenute. Questo ha permesso, in qualche caso, effettivamente, di veder abbandonare la procedura, di risparmiare denaro, tempo, conflittualità.
Dove, invece, questa iniziativa non venisse accolta, si può sempre fare ricorso, dopo la raccolta di firme. Ancora: questa proposta avrà già avuto, prima della raccolta delle firme, la valutazione di ammissibilità da parte della Commissione. Questo secondo me è molto importante: non bisogna far sprecare del tempo a nessuno.
Questa apertura, da noi, ha dato dei risultati insperati: una prima tornata referendaria, con cinque referendum nel 2007, quattro in materia istituzionale. C’è un punto sul quale abbiamo avuto modo di confrontarci con opinioni diverse, con il collega Toniatti: l’esperienza valdostana è molto più possibilista e più aperta sull’intervento popolare nelle materie di tipo istituzionale, organizzative del Consiglio regionale, e sulla stessa procedura referendaria. Insomma, noi siamo stati molto più aperti.
La nostra legge, però, ha anche delle grosse pecche o anomalie dal punto di vista delle materie; ad esempio esclude la possibilità di fare referendum in materia di programmazione urbanistica e ambientale. La cosa è sorprendente: dovrebbero essere proprio queste le materie più sensibili, più coinvolgenti.
C’è una spiegazione: è curioso che questa precisazione sia stata fatta da una forza politica che era di segno ambientalista, ma che temeva un uso di sfondamento, da parte dell’opinione pubblica, nei confronti di determinate regole di salvaguardia dell’ambiente. Si è accorta solo dopo di quanto, invece, soprattutto con la sensibilità che è maturata in questi ultimi anni nei confronti del territorio, questa sarebbe stata una leva nelle mani dell’opinione pubblica.
Questa è una curiosità: la tornata referendaria del 2007 è stata drammatica, perché ha segnato il punto più alto, credo, dello scontro tra il palazzo e la piazza, con una propaganda astensionistica delle istituzioni elettive, della Giunta regionale e di tutti i partiti che la sostenevano, molto dura. La ricordiamo come la campagna delle matite spezzate, perché ci fu addirittura un manifesto che, visivamente, raffigurava la rottura della matita come rifiuto di un referendum di cui si contestava, da parte del governo regionale e delle forze che lo sostenevano, l’utilità, in quel momento.
Fu un’immagine molto forte, a cui si contrappose poi la distribuzione popolare delle matite, nelle piazze: una contrapposizione di simboli che segnava un momento di strappo, non positivo, comunque poi fortunatamente superato e metabolizzato.
Il quinto referendum, dopo i quattro istituzionali, riguardava una materia tipicamente amministrativa ed era la localizzazione di un ospedale locale; un tema anche questo molto sentito, giocando sul quorum di partecipazione. La politica istituzionale raffreddò l’intera vicenda e continuò la propria politica, perché il risultato raggiunto fu soltanto del 27%.
Dico “soltanto”, ma in una giornata di fine novembre, con quasi tutte le forze dell’arco costituzionale contrarie a questa iniziativa referendaria, portare al voto il 27% della popolazione non era una sciocchezza. Sanno anche i nostri amici che vivono in Svizzera che la partecipazione ai referendum spesso è molto bassa e questo non deve scoraggiare.
45% è il quorum previsto dalla nostra legge referendaria: è altissimo, eppure cinque anni dopo, nel 2012, su una vicenda particolare, molto sentita, di resistenza contro la costruzione di un biogassificatore, quindi una forma di trattamento a caldo dei rifiuti, questa soglia è stata superata. Si è arrivati al 47%, nonostante, ancora una volta, una resistenza, una opposizione alla partecipazione, anche se più larvata, più strisciante, da parte delle istituzioni elettive.
A quale prezzo, però? Il prezzo è stato una drammatizzazione molto alta dello scontro. Per superare un quorum di quel genere bisogna drammatizzare molto il tema.
Per la verità c’è stato un momento di particolare sensibilità sui temi dell’inquinamento, dei pericoli per la salute, ma si è andati ad uno scontro su questioni anche molto delicate: la salute dei bambini, la crescita del feto eccetera.
La questione del quorum, secondo me, va letta anche in quella direzione. I quorum alti obbligano a lacerazioni forti, abbassare le soglie dei quorum, o addirittura sopprimerlo tranquillamente, come da esperienza ormai secolare, appena oltre la nostra frontiera, è un modo per dire che la battaglia è leale: ci confrontiamo sul contenuto delle questioni e la volontà popolare porta a quello che in Svizzera, sinteticamente ma intelligentemente, riassumono nell’espressione “quando il popolo parla, il governo si inchina”. Insomma, ha parlato il padrone.
L’intensità, la continuità, la consuetudine di questa esperienza referendaria, però, ha fatto sì che nel mondo elvetico, che noi conosciamo per vicinanza, si svelenisse, si stemperasse molto, rispetto al caricamento continuo, all’esasperazione dei toni che sono propri delle nostre esperienze.
Noi riteniamo che l’esperienza del 2012 sia stata molto positiva.
Purtroppo devo chiudere questa rappresentazione con una nota non così positiva. Con la sentenza 285 del 2013 l’unica legge italiana approvata dal popolo è stata dichiarata incostituzionale. Non per la procedura, non per i poteri esercitati dal popolo, ma per un presunto sconfinamento da parte della Regione, in quanto tale, rispetto ai poteri che le sono riconosciuti.
La Commissione referendaria valdostana l’aveva avallata, aveva ritenuto fosse legittimo questo passaggio, questo uso del potere legislativo in quel modo. Non è stato dello stesso avviso il governo centrale, che ha impugnato, a mio avviso illegittimamente, la decisione del popolo.
Quando regolerete queste materie, se farete delle scelte di referendum legislativo o propositivo, cercate di trovare delle soluzioni perché la questione abbia un vaglio di costituzionalità anticipato, o comunque che il governo non possa intervenire a posteriori. È stata una cosa molto discutibile sul piano teorico e anche molto sofferta: non si mette in moto una procedura referendaria per sentirsi poi dire, sei mesi dopo, che non era legittima.
Sul piano interno ovviamente questo non può far venire meno il valore di un’espressione di voto così alta.
Tra luci e ombre questa è l’esperienza valdostana, che sottopongo alla vostra attenzione, sperando che sia di qualche utilità, in questo lavoro complesso che avete avviato, e che speriamo dia un segnale ulteriore alla qualità della specialità alpina delle nostre forme originali di democrazia.
La specialità l’abbiamo difesa per tanto tempo come fosse una reliquia, un bene immobile e immutabile. Forse adesso la stiamo costruendo con strumenti nuovi e con forme organizzative diverse. Grazie a tutti.

BRUNO DORIGATTI – Presidente del Consiglio provinciale –
Grazie al professor Louvin, per l’esperienza della Val d’Aosta. Dopo il professor Toniatti, per quanto riguarda l’istituto di democrazia generale, e l’esperienza della Val d’Aosta, passiamo adesso a dare la parola ad Antonio Floridia, dirigente del Settore delle politiche della partecipazione della Regione Toscana. Ci parlerà di democrazia partecipativa, democrazia deliberativa e riflessioni sull’esperienza della Toscana. Grazie per la sua presenza.

DOTT. ANTONIO FLORIDIA – Dirigente del Settore “Politiche per la partecipazione” – Regione Toscana
– Gli interventi che mi hanno preceduto si sono soffermati, in particolare, sugli strumenti e i concetti della democrazia diretta.
L’intervento che farò io propone un altro punto di vista o, meglio, si sofferma su una nostra esperienza, che propone un altro modello di democrazia, quella che viene definita deliberativa, dirò poi in che senso.
La legge regionale toscana n. 69 del dicembre 2007 ha avuto una singolarità: è uno dei pochi esempi di sunset law – viene definita così dai giuristi inglesi – cioè la legge stessa prevedeva la propria scadenza, al 31 dicembre del 2012. La legge prevedeva anche un periodo preliminare di valutazione e di monitoraggio sugli effetti di tale legge.
Questo processo di valutazione e di monitoraggio è stato fatto nel corso del 2012 e nei primi mesi del 2013 il Consiglio regionale toscano ha lavorato, in collaborazione con la Giunta regionale, alla riformulazione della legge. Con una risoluzione approvata quasi all’unanimità dal Consiglio regionale indicava la positività dell’esperienza condotta nei quattro anni precedenti e anche alcuni punti di possibile modifica della normativa.
Queste modifiche sono state introdotte e nell’estate scorsa la nuova legge, che porta il
n. 46 dell’agosto 2013, è stata approvata. Proprio questa settimana, dopo alcuni mesi di blocco per ragioni burocratiche indipendenti dalla nostra volontà, sta per partire la fase pienamente operativa di questa seconda fase della legge toscana.
In questa sede non posso proporvi un bilancio compiuto di questa esperienza, per questo rimando al testo scritto che è stato distribuito. Vorrei limitarmi ad alcune riflessioni su quello che possiamo dire essere il modello teorico, l’idea di democrazia, l’approccio che la legge toscana sta sperimentando.
È opportuno però premettere alcune brevi considerazioni di informazione sull’impianto della normativa.
La legge toscana si fonda su due assi. Uno è quello del sostegno ai processi partecipativi locali. La legge definisce un insieme di procedure attraverso cui la Regione offre un sostegno, soprattutto finanziario, ad una serie di soggetti, enti locali, scuole, imprese, ma anche associazioni e cittadini, che richiedono l’apertura di un processo partecipativo su un oggetto ben determinato.
La valutazione e l’ammissione al sostegno regionale dei progetti viene affidata ad un organo indipendente, l’Autorità regionale per la garanzia e la promozione della partecipazione, eletto dal Consiglio regionale.
La legge precisa, poi, i requisiti e i criteri di priorità che l’Autorità deve seguire nella valutazione dei progetti presentati, affidandole anche compiti di consulenza e di orientamento metodologico.
La legge fissa, inoltre, alcune caratteristiche di questi processi partecipativi locali, prima fra tutte la durata, che non può essere superiore a sei mesi. Nel definire le caratteristiche di un processo la legge si ispira, seppure in modo non rigido, né meccanico, ai paradigmi teorici della democrazia deliberativa.
L’Autorità regionale indipendente nella prima versione della legge era un organo monocratico, nella nuova versione è un organo collegiale di tre persone e la legge indica chiaramente il profilo di questo organo, affermando che deve essere composto da personalità di “comprovata esperienza nelle metodologie e nelle pratiche partecipative”.
Il secondo asse è quello del dibattito pubblico su opere di rilevante impatto sulla comunità regionale. Si riprende, qui, il modello francese del débat public, con tutti gli opportuni e necessari adattamenti ad una scala regionale.
Occorre segnalare, peraltro, che negli ultimi mesi, già con il governo Letta, sono in corso importanti elaborazioni, ad uno stadio abbastanza avanzato, in sede governativa e ministeriale, per una normativa nazionale in materia. È chiaro, infatti, che la riflessione sulle opere pubbliche in Italia imporrebbe e impone una dimensione anche di carattere statale e nazionale su questo punto.
La nostra legge, con qualche difficoltà, cerca di individuare uno spazio specifico per la Regione, su questo punto.
Su questo punto la nuova legge è stata ampiamente modificata rispetto a quella precedente e la novità principale sta proprio nella previsione della obbligatorietà dello svolgimento di un dibattito pubblico, per tutte le opere che superino una soglia finanziaria di 50 milioni di euro di investimento.
Qualcuno dirà che è una soglia molto alta. Vi posso assicurare, perlomeno per una Regione come la Toscana, che abbiamo chiesto ai nostri uffici del settore infrastrutture di farci un elenco delle opere in cantiere prevedibili e sono tantissime. Sarebbe ingestibile fare un dibattito pubblico su 20-25 opere. Naturalmente la legge prevede che, se ci sono casi particolari sotto questa soglia, l’Autorità regionale può prevedere di svolgerlo ugualmente, in caso di particolari criticità.
Cos’è il dibattito pubblico, secondo il modello francese, ripreso anche dalla proposta di legge d’iniziativa popolare? Viene definito – cita – come “un processo di informazione, confronto pubblico e partecipazione su opere, progetti e interventi che assumono una particolare rilevanza per la comunità regionale”. Le modalità di svolgimento prevedono un rapporto finale. Dopo una fase di discussione pubblica in cui tutti i soggetti hanno potuto, in modo paritario, esprimere le proprie opinioni, con un ruolo importante di una commissione o di un coordinatore, che presenta un dossier iniziale, raccoglie tutte le posizioni, regola il dibattito, alla fine si formula un rapporto finale che viene consegnato al soggetto titolare della realizzazione dell’opera, il quale entro tre mesi deve dichiarare se intende confermare il progetto, modificarlo, mantenerlo o rinunciarvi del tutto.
Importante, nella nostra normativa regionale, è la fase in cui è possibile aprire un dibattito pubblico, la fase procedurale. La nostra legge scrive che il dibattito pubblico si svolge, di norma, nelle fasi preliminare di elaborazione di un progetto, quando, lo sottolineo, “tutte le diverse opzioni sono ancora possibili”. Può svolgersi anche in fasi successive, ma si pone un limite temporale: non si può andare oltre il momento in cui si è già in presenza dell’avvio della progettazione definitiva.
Perché è stata introdotta l’obbligatorietà, nella nuova versione della legge? La prima versione della legge prevedeva un carattere facoltativo dell’apertura del dibattito pubblico, non necessariamente, come qualcuno può sospettare maliziosamente, per cattiva volontà, ma anche perché, come sappiamo bene, in Italia le grandi opere, in particolare, da anni ormai andavano avanti, con progettazioni e varianti. C’erano fasi in cui c’era già il progetto esecutivo e altre in cui era ormai difficile mettere in discussione le scelte.
Questo carattere facoltativo di fatto non ha permesso che si applicasse questa parte della legge, nei primi quattro anni. Ora, con l’introduzione dell’obbligatorietà, si cerca di attuare questo punto.
Proprio in queste settimane sta iniziando la seconda fase di applicazione della normativa regionale. È probabile che si renderà necessario ancora qualche aggiustamento, specialmente per quanto riguarda l’istituto del dibattito pubblico. Possiamo dire, però, che la legge toscana, se sarà ancora sperimentata su questo punto, non lo sarà più per la parte che riguarda il sostegno ai processi partecipativi locali, che è la parte della legge che si è rivelata più efficace e consolidatasi ormai positivamente.
In quattro anni si sono svolti 116 processi, con un budget annuo. Sottolineo questo aspetto, perché la partecipazione costa e, di fronte alla demagogia imperante sui costi della politica, è bene dire che su questo aspetto non ci possono essere equivoci: la legge toscana, anche in questo periodo di difficoltà, ha un budget annuo di € 650.000.
È un aspetto essenziale, proprio perché non si vuole promuovere una partecipazione purchessia, bensì processi di partecipazione metodologicamente strutturati e attrezzati. Finanziare un’assemblea non costa nulla, ma finanziare dei processi che permettano di costruire in modo consapevole un percorso di discussione pubblica ha i suoi costi.
La ratio della legge, su questo punto, è molto semplice. La Regione mette a disposizione delle risorse, però questo sostegno non è né indiscriminato né incondizionato. I processi partecipativi devono rispondere a determinati requisiti.
È su questo punto che si coglie la ratio particolare della legge toscana: essa intende promuovere forme innovative, strutturate ed è bene essere netti, la nostra legge non si ispira ad una visione diretta della democrazia.
La responsabilità politica delle decisioni spetta alle istituzioni democratiche rappresentative e non può che rimanere ad essa, ma le istituzioni, questo è il punto di novità, possono – e sono incoraggiate a farlo – aprire un dialogo pubblico prima di decidere, per raccogliere e valorizzare opinioni, giudizi, esperienze e competenze diffuse nella società. Voglio sottolineare che non è un ruolo meramente consultivo, nell’accezione che comunemente si dà a questa parola. La legge è molto precisa nel prescrivere che l’apertura di un processo partecipativo avvenga solo laddove una decisione sia ancora da prendere, quando ancora sono possibili diverse opzioni. La partecipazione può concorrere, se produce buone idee, alla definizione o alla migliore definizione di una decisione e la capacità di influenza che un processo partecipativo può esercitare non è affidata ad una qualche, peraltro impossibile, codifica giuridica, o a una cessione di sovranità formalmente definita, bensì alla capacità politica di produrre buone idee e consenso intorno alla soluzione di un problema collettivo.
Nei primi quattro anni tra questi 116 casi ci sono stati processi più o meno riusciti, ma fondamentalmente il modello ha funzionato: non sono pochi i casi in cui il confronto e il dialogo pubblico hanno influenzato il processo decisionale, modificando gli orientamenti che all’inizio sembravano prevalenti, anche su questioni rilevanti, come ad esempio la localizzazione di alcuni importanti impianti di depurazione.
Hanno permesso di includere, nel processo decisionale, una più larga platea di interlocutori e hanno rafforzato, in questo modo, la legittimità delle decisioni.
In questi giorni stanno arrivando le prime domande che chiedono un finanziamento sulla nuova legge e devo dire che si sta confermando un’attesa che alcune revisioni di alcuni meccanismi legislativi avevano proposto, cioè che ci sia maggiore spessore politico nei processi partecipativi finanziati. Stanno arrivando delle domande, in questi giorni, su parchi urbani di notevole rilievo, ad esempio il Comune di Pisa, impianti energetici ambientali di difficile localizzazione, risanamento di edifici storici, il contratto di fiume in una zona sottoposta a gravi rischi idrogeologici, bilanci partecipativi, fasi preliminari della definizione del piano urbanistico; ma anche, per esempio, è arrivata una proposta dall’Azienda ospedaliera di eccellenza pediatrica, la Meyer, che vuole discutere con le famiglie e gli utenti la gestione del pronto soccorso pediatrico, quello che presenta maggiori criticità in questo pur eccellente presidio ospedaliero.
Questo è il quadro; però vorrei soffermarmi sull’idea di partecipazione e sull’idea di democrazia, che è insita nella trama normativa della legge.
La tesi che vorrei esporre è molto semplice e si svolge su due piani: la legge toscana sulla partecipazione si ispira propriamente ad una concezione deliberativa della democrazia, non è, dunque, una legge riconducibile ad una qualche idea di democrazia diretta, ma in parte ad un termine che viene usato spesso, un termine abbastanza ampio, quello di democrazia partecipativa.
Per ragioni di tempo non potrò soffermarmi su alcune considerazioni di carattere più generale, sul perché io ritenga che questo approccio alla democrazia possa essere una buona via, perlomeno promettente, come possibile risposta a quella che oggi comunemente viene definita crisi della democrazia.
Sin da quando questa legge è apparsa, molti osservatori hanno sottolineato, anche in campo internazionale, come la legge toscana costituisca un esempio pressoché unico di istituzionalizzazione della democrazia deliberativa. Mi piace qui ricordare, ad esempio, le affermazioni, in questo senso, del professor Jurgsteiner, professore emerito di Scienze politiche dell’Università di Berna, che nel suo ultimo libro cita la legge toscana come un esempio di questo tipo.
Cosa si intende con democrazia deliberativa e deliberazione?
Prima di provare a rispondere a queste domande è opportuno intendersi sul termine stesso di partecipazione, che sta diventando una parola troppo carica di ambiguità semantiche.
“Partecipazione” è un termine, che copre molti possibili fenomeni. Può essere distinto dalla sfera in cui si esprime – politica, sociale ed economica – ma anche per le forme che assume. Idealmente possiamo collocare queste forme lungo una linea continua, che da una parte vede tutte le forme di una prassi sociale e politica critica, antagonistica, conflittuale, di tutti coloro che concepiscono la propria partecipazione come conflitto e come antagonismo. All’estremo opposto, troviamo invece tutte le forme di cooperazione solidale, tutte quelle forme di autoorganizzazione della società civile, attraverso cui gli individui regolano la propria convivenza, affrontano in modo fraterno i problemi che questa impone, curano insieme alcuni beni comuni – una dimensione che evoca il principio della sussidiarietà.
In mezzo, tra questi due poli, possiamo trovare moltissime e variegate forme di partecipazione: la protesta, la denuncia, la rivendicazione, con ibridazioni e sovrapposizioni. All’interno di queste possibili forme vi può essere anche, in varia misura, una dimensione deliberativa, nel senso che ora dirò.
La società civile, nella sua autonomia, nel suo pluralismo, nelle forme associative che esprime, è ovviamente libera di adottare le forme e gli strumenti di partecipazione che più ritiene congrui alla propria finalità, ma non è questo il tema oggi in discussione. Il nostro tema è quello delle politiche e delle strategie che le istituzioni possono adottare, con l’obiettivo di favorire e promuovere la partecipazione dei cittadini.
Insomma, le vie della partecipazione sono infinite, ma anche piuttosto diverse fra loro. Per questo occorre nettamente distinguere tra tre aggettivi, diretta, partecipativa e deliberativa, che vengono comunemente attribuiti alla democrazia.
Sulla democrazia diretta non aggiungo molto, dopo quanto è stato detto, vorrei però sottolineare alcuni aspetti, in particolare il fatto che forme di democrazia diretta oggi, nelle condizioni della nostra modernità, possono forse integrare, talvolta a certe condizioni, le istituzioni della democrazia rappresentativa, ma sono, forse, possibili su una scala territoriale ridotta. Questo è un punto importante, che non le pone necessariamente in alternativa ad altri approcci, ma certamente esige una chiara caratterizzazione della dimensione del luogo in cui si usano certi strumenti, cioè una dimensione in cui ci siano tratti di omogeneità culturale e sociale, propriamente definibile come comunitari. Non sempre, dappertutto, è così.
C’è poi un problema di scala territoriale che riguarda il confine del demos: c’è stato un caso, di cui qualcuno di voi certamente avrà sentito parlare, di forte conflitto, inusuale per la Germania, che si è svolto nel 2010 a Stoccarda, a proposito della realizzazione della nuova stazione ferroviaria di Stoccarda, della linea di alta velocità Stoccarda-Ulm.
Dopo un conflitto molto aspro, si giunse, con procedure di mediazione dei conflitti apprezzabili e positive, ad un tavolo, con una discussione pubblica molto sviluppata. Alla fine, però, proprio perché si era in presenza di un conflitto senza possibilità di soluzione, si scelse la via del referendum.
Qui nacque un problema che vi invito a considerare, cioè chi aveva diritto a votare. Si decise che aveva diritto a votare tutto il Baden- Württemberg, 7,5 milioni di abitanti. Successe, quindi, che nelle città universitarie vinse nettamente il no alla nuova linea, mentre negli immensi e sperduti villaggi di campagna vinse il sì. Naturalmente quelli che erano contrari al progetto protestarono per l’allargamento, ma questo è effettivamente un problema: chi definisce i confini?
Pensiamo solo se in Italia si dovesse fare una cosa del genere in Val di Susa: chi avrebbe diritto a votare? Solo la Val di Susa, la
Provincia di Torino, tutto il Piemonte o un’altra dimensione?
Questo per dire che ad alcune materie il referendum non si presta, perché alcune materie e alcuni conflitti non rispondono alla logica binaria del sì o del no, esigono, invece, capacità di mediazione dialogica. Questo è il senso della democrazia deliberativa.
Deliberare significa classicamente soppesare i pro e i contro di una decisione.
Bisogna chiarirsi, anche dal punto di vista lessicale. Nel linguaggio corrente italiano spesso si assimila deliberazione a decisione, ad esempio la delibera della Giunta. In realtà il concetto si rifà alle radici etimologiche classiche, la libra, la bilancia, il soppesare i pro e i contro di una scelta e, paradossalmente, ma è così, al senso inglese della parola deliberation, che viene comunemente usato proprio in questo senso, come la fase di discussione razionale del confronto, che precede la decisione, la fase in cui si formano le opinioni e i giudizi.
Oggi la qualità della democrazia si gioca sulla capacità di ricostruire una sfera pubblica in cui ci sia questa capacità di formazione dialogica e discorsiva delle opinioni dei cittadini.
Il limite dell’esperienza della democrazia diretta è che si può benissimo decidere senza deliberare, che cittadini solitari e isolati riflettono privatamente su una scelta e non ci sono luoghi in cui se ne discute. Invece la qualità della democrazia si misura e si può rafforzare ampliando la dimensione del dialogo pubblico e della discussione pubblica.
John Dewey, filosofo americano del Novecento, grande pensatore, uno dei grandi classici del pensiero democratico del Novecento, ha scritto, nel 1927: “Come principio, il principio del governo di maggioranza è insensato, proprio come i suoi detrattori lo accusano di essere. La cosa più importante è il come una maggioranza diventa tale, ossia i dibattiti che precedono alla votazione, la modifica di un indirizzo per venire incontro all’opinione delle minoranze. L’esigenza essenziale, in altri termini, è il miglioramento dei metodi e delle condizioni del dibattito, della discussione e della persuasione. È questo il problema del pubblico”.
Il libro s’intitola proprio “The public and its problems”, del 1927, tradotto in italiano come “Comunità e potere”.
Una decisione a maggioranza è legittima non perché si limita a registrare i voti, a contare le preferenze immediatamente, ma viene sentita come legittima se tutti quelli che hanno voce in capitolo, che hanno diritto di dire qualcosa su quell’argomento, hanno potuto dire la propria opinione. A quel punto anche chi non si riconosce nella decisione della maggioranza la sente comunque come legittima ed è disposto ad accettarla.
Una democrazia del sì e del no rischia di essere sentita come esclusiva, divisiva, non coesiva. Questo è un punto fondamentale.
È un problema essenziale anche di legittimità democratica. Quando nel linguaggio comune, ad esempio, diciamo che una data scelta istituzionale soffre di un deficit di legittimità, quando una semplice scelta amministrativa produce conflitti, proteste, resistenze, veti, esprimiamo questo concetto: quella scelta, pur assunta dalle legittime sedi istituzionali, appare imposta, calata dall’alto, non sufficientemente argomentata, non discussa adeguatamente dall’opinione pubblica, non sostenuta da un’adeguata comprensione e discussione tra i cittadini.
Diventa, dunque, essenziale che il processo di costruzione della politica avvenga attraverso una partecipazione che si ispiri a questo concetto di deliberazione, come dialogo pubblico e confronto pubblico.
Il mio lavoro, come dirigente regionale, è quello di aver a che fare pressoché continuamente con Sindaci e amministratori che vengono a chiedermi.
Venne a trovarmi il Sindaco di Ponte Buggianese, una cittadina in provincia di Pistoia, nella zona del distretto conciario del Valdarno inferiore, uno dei principali poli di produzione della pelletteria e conceria in Italia. Da anni lì si trascinava una scelta sulla localizzazione di un depuratore, che doveva raccogliere tutte le acque reflue delle concerie, ripulirle e poi, nello stesso tempo, reimmetterle in modo regolato nel Padule di Fucecchio, una delle zone umide, ambientalmente molto pregiate e protette, molto in crisi, della Toscana.
Dopo anni e anni di progettazione puramente tecnocratiche o tecniche, c’erano finalmente in campo due possibili localizzazioni: l’accordo di programma con il Ministero dell’ambiente per un investimento di
120 milioni di euro prevedeva che entro dicembre del 2009 il Comune di Ponte Buggianese decidesse il sito.
Il Sindaco venne a trovarmi e mi disse: “Io una mia idea, su questi possibili siti, ce l’avrei, ma qui sono tutti pronti a spararmi addosso. Io voglio che tutti dicano la loro e che a decidere non sia solo io”.
Gli si diede € 35.000 per organizzare un processo che durò tre mesi, in cui, alla fine, sono state sentite tutte le associazioni, tutte le voci, tutti i cittadini, con audizioni pubbliche, una forma di mini-dibattito pubblico alla francese, ma non strutturato nel modo classico francese.
La prima domanda che i nostri facilitatori, organizzatori, progettisti hanno posto a tutti i partecipanti era: “Dove mettereste il depuratore?”. Vennero fuori altre undici risposte, rispetto ai primi due siti.
A quel punto si può pensare che si sia discusso uno per uno, qual è meglio e qual è peggio: no, il processo di discussione pubblica procede attraverso una discussione sulla rilevanza dei criteri con cui giudicare i siti.
Si discussero quindi i criteri, la vicinanza delle case, l’impatto eccetera, una sorta di analisi multi-criterio partecipata. Qui entra in campo il ruolo della cultura sociale e diffusa, perché tra i criteri che i cittadini della varie associazioni introdussero ce n’era uno che nessun ingegnere avrebbe mai potuto immaginare, cioè il fatto che alcune di queste possibili localizzazioni andavano a cascare proprio su un punto in cui, nell’estate del 1944, si svolse una delle più gravi stragi naziste della Toscana. La gente era molto attaccata alla memoria, al cippo, al monumento che ancora ricordava questo luogo. Alcuni di questi siti avrebbero comportato la distruzione di quel luogo della memoria, per cui tra i punteggi dati ebbe peso anche questo.
Alla fine, da undici si ridussero a tre e a quel punto fu il Sindaco a decidere. Nessuna di queste tre, di per sé, soddisfaceva tutti, però hanno accettato quella scelta dal Sindaco perché temevano una scelta peggiore.
Una delle obiezioni con cui ci siamo scontrati in Toscana è che la partecipazione faccia perdere tempo: in realtà in tre mesi il dibattito pubblico ha risolto una localizzazione che da anni non si riusciva a trovare, poi sono subentrate tutte le complicazioni burocratiche dei nostri enti.
In ogni caso è una storia a lieto fine. Oggi, nel 2014, finalmente si sta realizzando su un nuovo sito, nessuno di quelli che erano stati originariamente previsti.
Non c’è da votare. Non si vota, con questo tipo di partecipazione, si discute, si confrontano gli argomenti, si lascia alla responsabilità della politica la valutazione del peso degli argomenti e si crea un meccanismo di integrazione fra rappresentanza, responsabilità politica e partecipazione, non con un rifiuto e una contrapposizione dei momenti, ma con un rafforzamento della qualità.
La nostra esperienza non è stata rose e fiori, la legge è stata contrastata da settori anche importanti del mondo politico e istituzionale, pagandone un prezzo.
Per fare una battuta cattiva, l’ex Sindaco di Livorno, che era nemico di questa legge sulla partecipazione, non l’ha voluta applicare per la questione della localizzazione del nuovo ospedale cittadino e i risultati si sono visti il 25 maggio, con la vittoria storica del nuovo Sindaco Nogarin.
C’era una contrapposizione fra gruppi di cittadini che pretendevano immediatamente di poter contare, con una logica populista. Questa logica non regge: a che titolo di legittimità 100 o 1000 cittadini che partecipano hanno un qualche diritto? La risposta che si diede fu: non potete pretendere che la legge codifichi qualche vostro diritto a vincolare le decisioni, perché non è legittimo e nemmeno utile politicamente.
Piuttosto datevi da fare, se siete bravi a creare idee, movimenti e partecipazione, vedrete che la legge vi offre un meccanismo per influire politicamente.
Agli amministratori, invece, bisogna rispondere: veramente pensate che tre mesi di discussioni ritardino le decisioni? Anzi, si acquisisce più consenso.
La Toscana ha una lunga tradizione civica e di istituzionalizzazione della vita collettiva, con una dimensione non immediatamente comunitaria, come può essere quella delle zone alpine, dove invece la Comunità di Valle è quasi un luogo sociale, di integrazione e di spontaneità. Da noi sin dal Trecento la costruzione della cittadinanza avviene attraverso procedure di definizione delle regole e del ruolo delle istituzioni.
Forse la legge toscana si ispira un po’ questa tradizione: è un altro modo di concepire la democrazia, ma può essere anche utile al di fuori dei confini toscani. Grazie.

BRUNO DORIGATTI – Presidente del Consiglio provinciale
– Grazie al dottor Antonio Floridia, per la sua esperienza in Toscana, estremamente interessante.
Passiamo ora all’altro intervento che è stato più volte citato: la democrazia diretta in Svizzera, gli strumenti della democrazia moderna esistenti nel cantone di Neuchàtel, gli effetti sui rappresentanti, sui partiti e sui cittadini.
Ci proporrà questa relazione il professor Leonello Zaquini, professore onorario di Ingegneria e Consigliere comunale della città Le Locle.
A lui la parola, grazie ancora per la sua presenza in Trentino.

PROF. LEONELLO ZAQUINI – Professore onorario delle HE-ARC-Ingegnerie – University of applied sciences – Western Switzerland – Consigliere Comunale della citta di Le Locle
– Buongiorno, io sono in Svizzera dal 1997, da 17 anni. Devo dire che i primi anni, se mi avessero detto che mi sarei occupato di politica non ci avrei creduto. Questo anche per distanziarmi un po’ dagli interventi precedenti, di persone che hanno uno spessore culturale, sui temi presentati, diverso dal mio.
Sono finito a interessarmi di politica e ho finito col convincermi che il sistema politico svizzero è ispiratore di qualcosa di molto corretto, buono e positivo, a mio avviso anche e soprattutto per il mondo politico italiano.
Come ho scoperto recentemente, gli svizzeri molto probabilmente hanno copiato da noi il sistema della democrazia diretta, nel senso che nei liberi Comuni del Nord Italia esisteva la democrazia diretta di tipo medioevale, diversa da quella moderna, che non si oppone, anzi, affianca il sistema rappresentativo.
Sono finito in questa cittadina svizzera di 11.000 abitanti, con grande carattere emblematico, perché è la cittadina dell’altopiano dello Juras, dove è nata, circa trecento anni fa circa, l’industria orologiaia svizzero. Sono stato messo nella lista di un partito del luogo, che si chiama Partito operaio popolare.
È un partito, nella dimensione destra- sinistra, di estrema sinistra, per i miei gusti francamente troppo. Avevo una nonna comunista, non lo posso negare, ma io sono di centro. Io ritengo però che sia scorretto posizionare partiti e azioni politiche soltanto in una dimensione, destra-sinistra. Certo, tra l’imprenditore e l’operaio possono nascere dei contrasti, ce ne sono spesso, ma io raccomando, a me stesso per primo, di considerare la politica sempre almeno in uno spazio a due dimensioni.
Un’altra dimensione, che metterei su un asse verticale, è quella di democrazia- oligarchia (o elitismo). Il partito di cui parlo, nelle liste del quale sono rappresentante in comune, lo collocherei verso il centro, un pochino verso la parte oligarchica, come è purtroppo nella tradizione di molti partiti di sinistra di origine marxista, non anarchica.
Io sono invece piuttosto propenso alla democrazia e questo, peraltro, non crea grossi contrasti, perché, anche se non in modo entusiasta, vedo che questo partito, come gli altri, segue le innovazioni che anche io cerco di introdurre a livello comunale, nel settore della democrazia.
È opportuno ricordare, per spiegare certe cose, che in Svizzera, a Le Locle, ho anche creato una piccola start-up, per cui sono un piccolo imprenditore.
Detto questo presenterò questi temi, la democrazia diretta nel cantone di Neuchâtel – perché si deve parlare a livello cantonale, o federale, essendoci significative differenze – gli effetti sui rappresentanti, sui cittadini e sull’economia.
Quando si dice Svizzera, so per esperienza che tutti pensano alle banche. È un luogo comune che è opportuno modificare. La Svizzera, secondo il World Economic Forum, è il primo Paese industrialmente competitivo nel mondo, al 2013.
I dati sono piuttosto interessanti: la Svizzera è il quinto esportatore mondiale di macchine utensili, al sesto posto c’è la Cina, al settimo la Corea del Sud e all’ottavo posto gli Stati Uniti d’America. La Svizzera è un Paese grande come il Piemonte e la Lombardia, eppure si colloca in quel punto.
Ci sarà anche un sistema finanziario che ha i suoi vantaggi, per il Prodotto interno lordo, però la Svizzera è un Paese industriale, non dimentichiamo questo aspetto. Purtroppo il luogo comune nuoce all’immagine della democrazia diretta.
Aggiungo una cosa: ho avuto il piacere, anzi, l’onore, di conoscere Nicolas Hayek, il fondatore e padrone della Swatch, un immigrato libanese. Ha avuto la faccia tosta di dire che la Svizzera è un luogo in cui gli stipendi sono un po’ più alti, ma è molto adatto per fare industria. Tra i vari argomenti che ha citato, che anche io avrei messo nell’elenco, ne ha aggiunto uno che riguardava proprio la democrazia diretta, che educa i cittadini a un senso di responsabilità, cosa che lui trovava molto vantaggiosa per vendere i suoi orologi.
La Svizzera, come dicevo, si colloca secondo me come un ponte tra la democrazia diretta medievale, quella municipale dei liberi Comuni, che nei Comuni italiani noi adottavamo cinquecento anni prima, e strumenti nuovi che io spero si potenzieranno. Qualche cosa è già stato ripreso, anche se molto limitato, a livello europeo, oltre ad un sistema federale di cui, a mio avviso, l’Europa dovrebbe beneficiare. La Svizzera è in tutto e per tutto una piccola Europa nel centro dell’Europa.
Il cantone di Neuchâtel: 5% di stranieri, parecchi frontalieri, non è il più ricco della Svizzera – mi pare che le cifre concernenti il cantone di Ginevra siano più alte – comunque un cantone industriale, dove si fanno soprattutto orologi, ma anche dove, da circa una ventina d’anni, delocalizzano gli Stati Uniti d’America.
La cittadina dove vivo, Le Locle, si è enormemente reindustrializzata, dopo una crisi del ’74. Questa reindustrializzazione ha comportato, anche per merito di questo partito di estrema sinistra, il risanamento delle casse del bilancio dello Stato. Nella cittadina è un partito assolutamente maggioritario, 17 Consiglieri su 41, quasi la maggioranza assoluta. Questo partito ha risanato la situazione del bilancio della cittadina grazie al sostegno all’industria, che è accorsa sul territorio, aiutando a risolvere i problemi.
Il cantone di Neuchàtel era un ex principato della Prussia, passato in forma definitiva alla confederazione nel ’48. È un altopiano, con una delle più antiche ferrovie, non solo dell’Europa.
Fatta questa introduzione, passo a raccontare l’elenco degli strumenti di democrazia esistenti nel cantone.
Per prima cosa i cittadini possono presentare una domanda presentando una petizione. I cittadini propongono le loro domande e l’organo a cui sono indirizzate devono rispondere. È da notare che possono proporre delle petizioni anche persone che non hanno diritto di voto, come stranieri che non hanno ancora il diritto di voto, oppure persino i bambini.
Passiamo ora allo strumento fondamentale, per come la vedo io e per come la vedono in generale gli svizzeri, della democrazia diretta: la legge di iniziativa popolare, che spesso in Italia viene menzionata in modo un po’ diverso, denominata cioè ancora “referendum”, un termine che in Svizzera è limitato ad aspetti abrogativi o ratificativi.
Quando i cittadini vogliono legiferare usano le leggi di iniziativa popolare, che possono essere di due tipi: l’iniziativa a voto parlamentare, nel mio caso consiliare, con un numero limitato di firme, che è in pratica una mozione; lo strumento di presentazione di una legge, a voto popolare, cioè si chiama al voto l’insieme del voto popolare. Nel cantone dove vivo serve il 3,5% degli aventi diritto al voto. È uno dei cantoni più “cattivi”, da questo punto di vista. Il cantone di Zurigo, invece, è quello che facilita maggiormente le iniziative, con lo 0,7%. Attenzione però perché raccogliere le firme, in Svizzera, non è come in Italia, dove bisogna trascinare in piazza il notaio, è invece molto facilitato.
Questo dà luogo ad una eventuale controproposta dell’organo legislativo e qui vorrei fare una precisazione a quanto detto dal dottor Floridia, il cui intervento ho molto apprezzato: la democrazia deliberativa, cioè questo processo di arrivare ad una decisione, non è escluso dalla democrazia diretta, a partire da questa operazione della controproposta, ma anche per quello che succede dopo, quando, per esempio, un’iniziativa venisse rifiutata.
L’iniziativa si può presentare in due modi: dettagliata o sintetica. Dettagliata vuol dire che i cittadini la devono scrivere parola per parola, correttamente; sintetica vuol dire che scrivono l’idea, la passano all’organo legislativo, che la redige nuovamente, in una forma rispettosa degli obblighi.
L’organo legislativo ha, comunque, il diritto di scrivere una controproposta, si fa solo interprete della volontà popolare, quando il popolo la presenta in forma sintetica.
Non viene accettata una proposta scritta metà sintetica e metà dettagliata.
Oltre a questo, c’è un controllo formale fatto dalla cancelleria al momento della presentazione sull’obbligo di unità di materia.
Ci sono poi i referendum, anch’essi di due tipi. Uno è quello facoltativo, simile al nostro, solo che non c’è il quorum ed è valido soltanto nei primi giorni dopo la ratifica da parte dell’organo legislativo di un certo decreto. Passato quel termine, bisogna fare un’iniziativa per modificare, eventualmente, la cosa.
C’è poi uno strumento, secondo me importantissimo, poco noto, che è il referendum obbligatorio.
È basato su questo criterio, difficilmente criticabile: il legislatore non può legiferare su se stesso. La base fondamentale del referendum obbligatorio è questa, per cui tutte le pantomime che si vivono in Italia, con un tizio che va alla televisione a dire che la sua legge è una porcata, semplicemente sono ridimensionate.
Il legislatore, in quel paese, in quel cantone, ma vale anche a livello federale, in quasi tutti i cantoni, non può legiferare da solo, senza ratifica popolare, su ciò che lo concerne direttamente.
Questo comporta che le leggi elettorali, le modifiche della costituzione, ma anche le leggi approvate con procedura d’urgenza, dopo essere entrate in vigore passano al voto popolare.
Non solo: in altri cantoni c’è il referendum obbligatorio anche per cifre di spesa molto elevate. Ad esempio ho citato la ferrovia: nel nostro cantone non c’è questo tipo di obbligo, ma l’esecutivo stesso si attendeva un referendum e, quindi, ha promosso una votazione popolare. La ferrovia non si è fatta perché i cittadini hanno bocciato questa iniziativa.
Mi hanno detto che nel cantone di Zurigo il sistema dei trasporti pubblici ha dovuto superare, per ben tre volte, questo ostacolo e questa fase di “rimuginazione” popolare è un dialogo tra rappresentanti dei cittadini, che va avanti.
C’è poi un’altra forma, quella dell’iniziativa comunale.
Aggiungo due parole sulla democrazia rappresentativa esistente nel cantone; l’esecutivo (Consiglio di Stato) è composto da 5 persone per 10 dicasteri, eletto con voto diretto maggioritario a doppio turno. Come tutti gli esecutivi, è cooperativo e non competitivo.
Questo vuol dire che, ad esempio, nel Consiglio comunale della mia cittadina, adesso ci sono i verdi, prima c’erano i socialisti, tutti i partiti sono rappresentati nell’esecutivo. Il legislativo, peraltro, è rappresentato da 41 persone, proporzionale, senza sbarramenti, e c’è anche il meccanismo della cosiddetta preferenza, vale a dire la possibilità, di cui si sta parlando anche in Italia, della possibilità di votare persone di liste diverse.
Gli strumenti essenziali della democrazia diretta in Svizzera prevedono il sistema di raccolta di firme, un foglio che si può scaricare anche dalla rete; non c’è bisogno di portare il notaio da nessuna parte, né funzionari. Inoltre c’è questo strumento, estremamente importante, uno cantonale e l’altro federale, con cui viene a casa l’informazione del parere contro e a favore su ogni decisione che il cittadino deve prendere.
Questo stabilisce un sistema ordinato, dà un’informazione pubblica pluralista, legata all’oggettività dei problemi, e rende inutile il quorum. Io capisco perfettamente la preoccupazione di chi dice che una minoranza organizzata, se raccoglie le firme, può non dire niente della votazione, i media non ne parlano e viene votata una “porcata”. Questo non può impedire il fatto che i cittadini siano informati, se la formazione è basata su questo strumento, che ridimensiona i media normali.
Io mi sono convinto soprattutto per l’effetto sui rappresentanti che la democrazia diretta ha. Prima di essere eletto nel Consiglio comunale vedevo che gli svizzeri votavano sempre e io stesso avevo lanciato delle iniziative, raccolto delle firme su temi specifici, ma mi sono reso conto dell’effetto positivo della democrazia diretta solo quando sono stato nominato Consigliere comunale. Questo perché constato che i miei colleghi si domandano in continuazione cosa direbbero i cittadini. “E se i cittadini prendessero l’iniziativa?”.
Un intervento in Consiglio comunale può terminare così: “Cari Consiglieri, facciamo attenzione perché il tema è così sentito che rischia che i cittadini prendano l’iniziativa”.
Non succede niente di male per l’eletto. L’eletto non è un delegato del partito ma un rappresentante dei cittadini, perché la democrazia diretta rappresentativa soltanto produce questo fenomeno, grave, per cui il rappresentante, invece di restare rappresentante del cittadino, degenera in una forma disprezzata dai cittadini, che è il delegato del partito, uno che schiaccia bottoni. Questo è il male della democrazia solo rappresentativa che, però, affiancata dalla democrazia diretta, mette meglio le cose a posto.
Tenete conto che i rappresentanti questa domanda cruciale se la pongono sempre e i cittadini la temibile iniziativa non la prendono mai. Nel Comune dove sono io l’hanno presa 7 volte negli ultimi 17 anni. In sei di quelle sette volte l’hanno presa quando le cose andavano male.
Nello stesso lasso di tempo, i rappresentanti l’iniziativa – con decreti legislativi – l’hanno presa mille volte.
Certo, a volte i cittadini sbagliano anche, sono stati nominati i minareti, ma vi assicuro che anche io stesso, con questa mia mano, ho votato all’unanimità porcate incredibili, che poi ci sono state corrette. Anche i rappresentanti sbagliano, per cui nasce un dialogo tra i cittadini e i rappresentanti.
Il partito è un’associazione di cittadini per raggiungere certi obiettivi e degenera un po’, perché c’è questo fenomeno della degenerazione oligarchica dei partiti, spiegato da diversi ricercatori. I partiti perdono una parte del loro potere, ma questo non è un male, perché ci guadagnano il fatto di restare quello che dovevano essere all’origine.
Devo raccontare qualche aneddoto: in consiglio comunale a Le Locle il 75% delle delibere sono decise all’unanimità, non solo all’interno dell’esecutivo ma anche del legislativo. All’unanimità si prendono anche delle decisioni sbagliate.
Una Consigliera di questo partito, largamente maggioritario, un giorno in un’assemblea ha detto, con estrema ingenuità: “Dovremmo votare tutti uniti e compatti”, inventando il voto di squadra. Le hanno risposto che questa non è democrazia: “Discutiamo qui all’interno del partito, ci formiamo le idee e poi ognuno va in Consiglio e vota come crede”. Io, quando intervengo, devo cercare di convincere in primo luogo i miei compagni di partito, perché non è assolutamente assodato il loro consenso.
L’iniziativa riduce il potere dei partiti sui rappresentanti e i partiti restano più vicini alla realtà sociale. I cittadini svizzeri usano questo strumento con una certa cautela, sono chiamati circa quattro volte all’anno a votare, non tutti vanno a votare: anzi, io mi sono trovato con qualcuno molto impegnato politicamente che diceva: “Non sono andato a votare, è meglio non votare che sbagliarsi a votare”. Certo, tutti vorremmo che tutti si occupassero sempre, fino in fondo, di politica e avessero delle idee chiare su tutti i temi referendari, ma non è opportuno forzare questo atteggiamento.
Il quorum nei referendum o nelle iniziative forzerebbe in questa direzione. Io ho l’impressione netta che i cittadini giudichino scorretto esprimersi seguendo il partito.
La democrazia diretta elimina il monopolio del potere legislativo e questo risana anche l’economia. Le lobby ci sono: io, in quanto piccolo imprenditore, sono stato invitato ad una conferenza all’Università di Neuchàtel, dove ci spiegavano come noi, imprenditori, potevamo fare lobby sui parlamentari. La lobby però ha, di fronte a sé, un’altra lobby, che è quella dei cittadini, che contrasta.
Più si allarga il numero dei decisori potenziali e più il povero lobbista si trova in difficoltà, con grande risparmio delle finanze.
La Svizzera non è il paese del Bengodi, la democrazia diretta merita, anche in Svizzera, di essere migliorata ed è oggetto di discussione. Uno dei problemi in discussione è il finanziamento delle iniziative popolari, che non è trasparente, contrariamente a come succede in California, dove non hanno finanziamento pubblico ma privato, ma sono obbligati a mettere dentro un capitoletto aggiuntivo, dove si dice chi sono i finanziatori dell’iniziativa.
Altre cose: l’irricevibilità delle iniziative è votata dall’organo legislativo stesso. In Comune noi avevamo rifiutato una proposta dell’esecutivo – si trattava del fondo sintetico del terreno – soprattutto per decisione del partito liberale, i cittadini hanno preso l’iniziativa e questa è arrivata in Consiglio per l’approvazione da parte del Consiglio stesso.
Abbiamo certamente dato l’approvazione, ma non è tanto corretto che un organo, che può essere parte in causa della decisione, sia chiamato a decidere sulla ricevibilità dell’iniziativa.
Altro punto oggetto di critiche è, per esempio, il fatto che i partiti, sempre più, utilizzano la democrazia diretta. Lanciano delle iniziative il cui scopo è, evidentemente, più che altro elettorale. Non sono interessati all’oggetto. Ad esempio l’iniziativa sui minareti era tipica di questo modo di fare.
Il problema è evidentemente un difetto della democrazia diretta svizzera. Altra cosa è che a volte i testi delle iniziative non sono così imparziali, come nel testo della descrizione del libretto, ma sono enfatici.
Cinicamente mi sono domandato: perché i rappresentanti dovrebbero essere a favore della democrazia diretta, dal loro punto di vista? Le risposte sono: maggiore indipendenza da parte del partito, maggiore serietà nel lavoro, maggiore rispetto da parte dei cittadini stessi.

BRUNO DORIGATTI – Presidente del Consiglio provinciale
– Grazie di questo contributo notevole, sicuramente tutti l’abbiamo apprezzato. Per quanto riguarda i media civici, strumento di partecipazione per le istituzioni democratiche, parlerà adesso il dottor Luca De Biase, Presidente della Fondazione Ahref.

DOTT. LUCA DE BIASE – Presidente Fondazione Ahref
– Grazie. Sono un giornalista e devo dichiararmi non colpevole di molte cose che sono velatamente uscite oggi, a partire da Toniatti, che parla di correttezza nell’informazione, l’Italia è un disastro, che è parte integrante del tema posto da Luovin e Floridia sulla sfera pubblica, perché se non c’è informazione corretta manca la premessa per fare una discussione democratica.
È su questo che, effettivamente, vorrei concentrarmi.
Perché “non colpevole”? Perché mi rendo conto che le caratteristiche con le quali si è creata la condizione per la quale il giornalismo e il sistema dell’informazione tradizionale non sono d’aiuto alla credibilità del sistema democratico e alla qualità del dibattito democratico, non sono solo frutto e colpa delle singole categorie professionali, compresi i giornalisti. Non è una difesa ma è, se volete, l’inizio di un’accusa ben più profonda.
Ricordate la freschezza con la quale ci è stato raccontato il sistema svizzero, nel senso che quello che diceva era credibile. Quando ha detto che la Svizzera è il paese industrialmente più competitivo del mondo, lo ha detto il World Economic Forum, noi abbiamo pensato che fosse una buona fonte, una buona informazione. Se avessero detto che l’Italia era la migliore del mondo, e l’avesse detto una fondazione italiana, avremmo detto: “Per forza, è italiana”. Ebbene il World Economic Forum è svizzero e dice che la Svizzera è il miglior paese per l’industrializzazione.
Noi avremmo una discussione sulla fonte, su chi lo dice, sul perché lo dice. I casi, su questo, si sprecano. Quando l’Ufficio studi della Confindustria nel 2009 esce con le sue previsioni sul Pil e prevede -2,5% del Pil, una forte recessione, l’allora Ministro dell’industria disse che portavano sfortuna. Tra l’altro avrebbero portato fortuna, perché quell’anno l’Italia è andata a -5%.
Questo è il clima nel quale ci troviamo: mancanza di credibilità, sia delle fonti di informazione, sia delle persone che vengono osservate e seguite dalle fonti di informazione. La credibilità di un politico è perché dice la verità, la credibilità di un politico è perché fa quello che dice, oppure la credibilità di politico è semplicemente perché fa quello che vuole? Di tutte queste tre cose non ci fidiamo più, non sappiamo se dice la verità, non sappiamo se farà quello che dice, non sappiamo nemmeno se può fare quello che vuole, perché i limiti all’interno dei quali agisce sono talmente gravi e grandi, che non è detto possa fare nemmeno quello che vuole.
Dalla parte dell’informazione noi abbiamo dei media, che hanno un’efficacia così pesante sulla qualità del dibattito della sfera pubblica, che spesso sono diventati dei fini. L’obiettivo è andare in televisione invece che dire delle cose attraverso la televisione. Ci siamo infatti resi conto che solo la presenza in televisione sposta voti, non importa quello che si dice.
In sostanza, ci siamo resi conto che la struttura dei media, non necessariamente il messaggio che portano, influenza le opinioni. È abbastanza impopolare dirlo, infatti non lo si dice mai, però non è vero che gli elettori sono razionali, persone che scelgono volontariamente, sulle base delle loro idee, di fronte ai loro interessi, l’offerta politica che preferiscono. È molto probabile che siano manipolati.
I casi sono molti, provati. La discussione intorno a questo è timida e incerta. Ero ad un talk-show e a un certo punto, a seguito delle elezioni, uno dell’Svg si è permesso semplicemente di dire che, all’interno del panorama degli elettori, c’era una differenza di orientamento fra quelli che si informavano solo con la televisione e quelli che si informavano con la televisione e altri mezzi. Fino al 2011 il 55% degli italiani dichiarava di informarsi, per le elezioni, solo con il Tg, nemmeno con i programmi di approfondimento. Solo il 45% faceva qualcos’altro, ad esempio leggere un giornale, sentire la radio eccetera.
Questo signore dell’Svg ha fatto notare che il voto a destra, tra quelli che si informavano solo con la televisione, era molto più probabile del voto a sinistra. Erano elezioni durante le quali la destra, direttamente e indirettamente, controllava sei canali su sette, nazionali.
C’è poi il caso 2006-2007 quando, come ricorderete, si è parlato enormemente di criminalità, stupri e insicurezza, quando gli immigrati erano causa di preoccupazione per la sicurezza degli italiani e quando, secondo tutti i sondaggi, al primo posto, nell’agenda degli italiani, c’era la criminalità.
Si è fatta una ricerca: cos’è successo? Perché c’è così tanta preoccupazione per la criminalità? I crimini erano sempre uguali, non erano aumentati, rispetto agli anni precedenti. Era aumentato però il numero di servizi sui crimini in televisione. Gli italiani, quindi, hanno pensato che ci fossero più crimini e che quindi la prima priorità fosse la lotta alla criminalità.
Non è bello dirlo, io sono un cittadino come voi e sentirmi manipolato in questo modo lo trovo poco divertente. Però è un fatto e notate che non è il singolo messaggio sul singolo crimine ad essere criticabile, perché quel crimine effettivamente è avvenuto, ma è la scelta di strutturare l’informazione con un’agenda che prevede molte informazioni su questi crimini ad aver cambiato l’opinione degli italiani. La struttura e il frame con i quali si raccontano le cose sui media hanno un’importanza molto forte sull’opinione e sulla manipolazione.
La domanda chiave è questa: è finita l’epoca in cui la struttura dei media era fondamentalmente broadcast, cioè da pochi a molti, come la televisione, i giornali e quel genere di informazione. Perché c’è Internet, che ha reso l’accesso all’informazione e la produzione di informazione meno concentrato, dai poli che controllano l’informazione verso tutti. Ha reso possibili molte nuove cose.
Il problema è che siamo in un grande cambio di paradigma, nel quale la credibilità della politica, dell’informazione, non dipende soltanto dai media.
Certamente i limiti all’interno dei quali si svolge la vita politica sono molto grandi e non hanno a che fare soltanto con i media, però certamente non capiamo la transizione attuale senza capire l’impatto di Internet, che ha un impatto fondamentale proprio dal punto di vista della struttura dei media.
Non voglio dire che Internet sia democrazia, voglio dire che Internet cambia le condizioni con le quali una società gestisce e sviluppa il suo sistema di media in relazione alla democrazia.
Media broadcast, quindi, come epoca passata, prima di Internet, non perché non siano più importanti, ma perché adesso si confrontano con un sistema mediatico che contiene anche Internet e che, quindi, contiene altre possibilità.
La prima cosa successa su Internet è che tutti hanno pubblicato dei siti. Negli anni ’90 c’era un grande sistema di produzione di siti. Tutte le cose che si volevano pubblicare venivano pubblicate con un basso costo. La logica strutturale era sempre quella: quelli che avevano qualcosa da dire lo dicevano con minori costi e i siti erano fondamentalmente dei luoghi abbastanza fermi di informazione.
Quello che è successo tra il 2004 e il 2012 è stato il boom dei social network, cioè una situazione nella quale Internet viene interpretata come struttura mediatica che consente la partecipazione – uso volontariamente questa parola un po’ ambigua – di tutti alla produzione dell’informazione. Tutti partecipano dicendo la loro cosa, linkando la cosa che ha detto qualcun altro, oppure “mi piace o non mi piace questa cosa”. Se ricordate, prima di Facebook c’era il mondo dei blog, che era un grande medium, non tanti piccoli giornali, di cinque lettori ciascuno, ma un grande sistema di link tra piccoli giornali e piccoli blog, che diventava una struttura abbastanza abile nel far passare messaggi velocemente, di blog in blog. Quando poi è arrivata la logica dei social network questo è stato industrializzato e reso molto più facile.
Nel 2004 parte, nel 2008 siamo ancora a 100.000 iscritti a Facebook in Italia, a giugno del 2008 erano 600.000, poi sono andati in vacanza e sono tornati 1.500.000 iscritti. Verso la fine dell’anno erano 3 milioni. Adesso hanno sicuramente superato i 22 milioni, forse sono 25 milioni gli iscritti italiani a Facebook.
Cosa fanno Facebook? Mettono una cosa, la segnalano ai loro amici, possono essere gratificati da un like, avere dei commenti, discutere e andare avanti esistendo su quella piattaforma.
Le dinamiche della struttura del mezzo Facebook sono abbastanza semplici, ormai vediamo che sono chiaramente funzionanti in questo modo: tendenzialmente le persone si trovano con persone simili, perché ricevono i like attraverso un gesto molto veloce, un semplice clic alla base di un messaggio. Questa facilità dell’accettare, del gradire un messaggio, è registrata dall’algoritmo di Facebook, che se lo ricorda, per cui tutte le prossime volte che ti colleghi a Facebook ti arrivano, in alto, tutti i messaggi delle persone alle quali hai fatto like in passato. In basso, sempre più in basso, le persone alle quali non l’hai mai fatto. L’algoritmo dice: “Ci sono molte cose da sapere, io ti metto più in evidenza quello che è probabile che ti piacerà più, perché in passato ti è piaciuto”.
Questo genera una bolla del filtro automatico, stra-studiata, per cui ciascuno si trova con i suoi simili, quelli con cui ha condiviso una curiosità, un interesse, un’indignazione, un valore. Di fatto, quindi, Facebook, per quanto potentissima, sta creando non aggregazioni di persone, ma aggregazioni di persone simili, tribù, gruppi chiusi.
Da questo punto di vista i media sociali sono un’interpretazione del possibile impatto di Internet sul sistema mediatico, ma solo una delle possibili interpretazioni.
Tra l’altro questo algoritmo con il quale Facebook seleziona le cose che tu vedi addirittura è stato usato per fare una ricerca scientifica.
L’altro giorno è uscito uno studio di data scientist che hanno fatto un paper scientifico, con un campione non esattamente statistico, ma una scelta di 689.000 utenti di Facebook, ai quali gli scienziati hanno modificato l’algoritmo personalmente, in modo tale che per una settimana metà di queste persone ricevessero soltanto i messaggi ottimistici, gentili, simpatici e contenti dei loro amici e l’altra metà ricevesse soltanto i messaggi depressi, tristi, preoccupati dei loro amici.
689.000 persone hanno avuto Facebook, per una settimana, in questo modo.
La domanda che si ponevano i ricercatori è: la gioia degli altri rende me gioioso, oppure mi rende invidioso? La depressione degli altri mi deprime o mi solleva? Il risultato, se volete saperlo, è che la gioia degli altri mi rende gioioso e la depressione degli altri mi rende depresso, cosa che, peraltro, avevamo scoperto con altri strumenti e altri esperimenti, ma questo esperimento ha un dato di metodo particolarmente rilevante. Questi 689.000 persone non sapevano di essere nell’esperimento e sono state trattate in questo modo attraverso un algoritmo che, questa volta, è stato usato per motivi scientifici, ma potrebbe essere usato per qualunque motivo, come si vuole, ottenendo delle variazioni di umore, di atteggiamento culturale, di emozione, di proposizione e di rapporto con gli altri, fondamentalmente manipolatorie.
Non siamo usciti dalla televisione che ci manipolava per entrare in una rete che ci libera. No, perché la liberazione dipende da noi e dal modo con cui usiamo questa rete e maturiamo la nostra conoscenza della rete stessa.
Fino ad ora la rete ha un grande vantaggio, una cosa fantastica, non paragonabile a nessun altro mezzo: sulla rete possiamo costruire nuove forme di struttura mediatica, con costi relativamente bassi, anche se occorre una competenza crescente, perché il mondo sta diventando sempre più complesso, da questo punto di vista.
Noi di Ahref abbiamo proposto questo concetto: dopo l’epoca del media broadcast e l’epoca dei media sociali, tipo Facebook, deve arrivare l’epoca dei media civici. I media civici sarebbero delle strutture mediatiche, che si sviluppano prevalentemente in rete – anche perché è più facile creare un media civico in rete piuttosto che costruire una televisione civica – che abbiano l’obiettivo non di unire le persone in quanto si assomigliano, hanno curiosità e valori simili, ma di unire le persone, farle collaborare, intorno a problemi che derivano dal fatto che loro convivono in un certo territorio, sia che si piacciano, sia che non si piacciano; contribuire con questi media alla ricostruzione della sfera pubblica, di cui parlavamo prima, alla creazione di un luogo nel quale siamo tutti d’accordo che le regole di comportamento sono quelle e, caso mai, ci dividiamo sull’opinione. A partire dall’informazione civica, per arrivare allo scambio di istanze, alla deliberazione e all’elaborazione di istanze condotta inmodo civico e, in futuro, per alcune specifiche attività, decidere, eventualmente, se questa è la modalità.
Quello che è interessante, però, non è tanto lo scopo, quanto il percorso che abbiamo scoperto essere necessario per arrivarci. Se notate, in tutte le fantastiche relazioni che abbiamo vissuto questa mattina lo scopo è relativamente chiaro, ma l’importanza del discorso è soprattutto il metodo con cui vengono applicate.
È su questo, anche per quanto riguarda Internet, che bisogna concentrarsi. Abbiamo un metodo relativo all’ingaggio, cioè perché tu entri in questo medium. Lì abbiamo pensato ad alcune cose, che sono: “Prenditi una responsabilità e dillo tu, personalmente, con la tua identità”.
Come mi comporto in relazione gli strumenti che ho di fronte? Vi racconto solo il caso più rilevante, per darvi un’idea dei tipi di soluzione che siamo andati a cercare e del risultato, il caso principale di applicazione di uno dei nostri esperimenti, ormai diventati abbastanza concreti e utilizzabili in molte situazioni.
A un certo punto, se ricordate, l’anno scorso c’è stato un dibattito costituzionale, con i saggi che avevano tirato fuori otto proposte di modifica costituzionale. Questi saggi, di derivazione del Presidente della Repubblica, elaborano delle proposte e queste vengono date al governo, da portare avanti.
Il governo aveva un ministro che si chiamava Quagliariello, che si occupava di questa questione. Quagliariello esce con un’idea, dice: “Facciamo una consultazione intorno alle otto istanze dei saggi, con un referendum on-line e sul telefonino. Otto questioni, otto domande, sì o no: siete d’accordo o non siete d’accordo”.
Erano fatte in un certo modo, la domanda che ci si trovava davanti era del tipo: “Ti piace un Parlamento nel quale ci sono due Camere che perdono un sacco di tempo perché devono fare le stesse cose due volte oppure vorresti riformarle togliendone una?”. Erano domande fatte in un certo modo.
Ahref era stata consulente del Senato per fare un discorso sui media civici in generale e arriva all’orecchio di Quagliariello l’idea di chiamarci. Noi gli diciamo che non si può fare così e lo convinciamo a fare, prima di tutto, un grande sito di informazione sul perché la Costituzione è fatta in questo modo. È stata fatta da costituzionalisti e ragazzi che si sono dedicati molto a questo, è venuto fuori un sotto-sito fantastico, dove si vedeva il dibattito, all’epoca dei padri costituzionali, sul perché le Camere erano fatte in questo modo.
Abbiamo poi chiesto e ottenuto di avere una parte di dibattito aperto a chiunque volesse dire la sua, intorno alle otto proposte di riforma costituzionale.
Questo era un grosso rischio: ricorderete che allora c’erano i costituzionalisti, giustamente, contrari a quel tipo di riforma; il Fatto aveva raccolto 600.000 firme contro quella riforma. Quagliariello stesso non era proprio costituzionalmente tranquillo e senza macchia, nel senso che, commentando il fatto che il Senato avrebbe fatto una Commissione per vedere se Berlusconi doveva rimanere al Senato oppure no, dopo la condanna definitiva, aveva detto che quella Commissione era un plotone di esecuzione.
Ci aspettavamo ed era possibile che a quella discussione sulla Costituzione partecipassero molte persone che dicevano “Zombie, siete morti, andate a casa”.
Il risultato è stato invece di 95% di proposte consultive. Le formule con cui abbiamo ottenuto questo risultato sono essenzialmente di qualità dell’interfaccia. Le persone non potevano mettere più di una proposta, quindi non si formavano dei dibattiti di polemica. Se volevano polemizzare c’era un posto dove farlo ma non era in prima fila e il like non era “sì” o “no” ma “si-no”, “ho capito-non ho capito”. In quel momento si riduceva l’istintività e l’emotività della risposta.
Alcune di queste proposte sono entrate nel dibattito e sono andate a finire nell’ulteriore rapporto finale che il governo ha proposto e poi ha lasciato perdere, perché nel frattempo è cambiato.

BRUNO DORIGATTI – Presidente del Consiglio provinciale
– Grazie del contributo e di tutte le informazioni. Diamo adesso la parola all’Assessore Daldoss. Prego.

CARLO DALDOSS – Assessore alla coesione territoriale, urbanistica, enti locali ed edilizia abitativa – Provincia autonoma di Trento
– Buongiorno a tutti. Vorrei portare i miei saluti e i saluti del Presidente della Provincia autonoma Rossi, ringraziare il Consiglio, in particolar modo il Presidente, che ha voluto organizzare questa conferenza di informazione. Inoltre vorrei ringraziare i proponenti di questo disegno di legge, il primo firmatario Alex Marini, ma anche l’estensore; insomma chi, anche all’interno del nostro Trentino, ha sollevato questo tema della partecipazione.
Credo che se oggi siamo qui a parlarne con questi qualificati relatori, in maniera così compiuta e con delle testimonianze anche diversificate, rispetto a questo tema, vada dato il giusto riconoscimento.
C’era la necessità di un dibattito molto importante, viste dalle diverse prospettive; da quella del professor Toniatti, più attento agli aspetti di tipo costituzionale, in particolar modo gli impatti sul nostro Statuto, sulla nostra particolarità che, come Provincia autonoma, viviamo all’interno della Costituzione, con un richiamo all’attenzione a quel che si va poi a legiferare.
Anche, e soprattutto, con prospettive e punti di vista che vedono, da una parte, una forte propensione verso questa democrazia diretta, esplicata nelle varie modalità e maniere, e una partecipazione che, come nel modello della Toscana, è di confronto, probabilmente più faticosa, di convincimento delle proprie ragioni e dei propri punti di vista, ma fondamentalmente riconosce l’istanza ultima della decisione.
Due modelli, due visioni che in parte si integrano ma in parte partono da dei presupposti diversi.
Nel momento storico particolare in cui stiamo vivendo, vediamo una società in forte cambiamento, una società che forse è meno disposta a concedere, in maniera acritica, a dei soggetti decisori, ai loro rappresentanti, tutte le decisioni che li riguardano.
È anche un momento nel quale le modalità tipiche rappresentative di questa nostra organizzazione, di questa nostra Repubblica, che sono stati i partiti, trovano difficoltà ad essere i veri referenti delle istanze dei cittadini. L’abbiamo visto forse negli ultimi vent’anni, ma lo possiamo vedere anche in tempi molto recenti: ormai non si vota più tanto per il partito quanto per quella persona che, sotto il partito, o comunque sotto una rappresentanza organizzata come sono i partiti, riesce a trascinare nell’immaginario il cittadino ad esprimere un voto di preferenza che alle volte, come ha sottolineato giustamente il professor Toniatti, non è su un fatto concreto, ma su un’idea di quello che sarà, quindi, anche con una grande dose di fiducia in quello che sarà.
Oggi ti propongo un’idea ma non so ancora come sarà, nell’effettiva traduzione pratica. Investo su di te in termini di fiducia e un esempio tipico è quello delle ultime elezioni alle quali abbiamo assistito.
È questo il sistema, quello della democrazia diretta, che scardina lo status quo, obbliga e costringe i cosiddetti partecipatori, quelli che oggi o nel passato sono risultati detentori della decisione politica? Io credo di sì, credo che, da questo punto di vista, se i partiti sapranno interpretare in maniera positiva questo momento di cambiamento, anche con modalità nuove, avranno un nuovo futuro, una nuova legittimazione nella rappresentatività. In maniera diversa, come tutte le cose che nei momenti di cambiamento non si adeguano, saranno destinati ad essere travolti.
La grande domanda è su come si possa arrivare a mantenere un filtro tra l’emotività di una decisione, sulla quale il cittadino è chiamato a partecipare e ad esprimere la propria posizione, e, invece, la necessità che, su certe posizioni, ci sia un’elaborazione, un pensiero.
Si possono prendere, delle volte, degli indirizzi e delle posizioni che non sono condivisi dalla maggioranza dei cittadini. Credo che la politica abbia anche questo grande compito: intravedere delle strade che oggi non sono maggioritarie, intravedere delle soluzioni che oggi magari sono viste come non ottimali o non le migliori possibili, ma che possono esserlo nel futuro più prossimo.
Quella della partecipazione è una grossa opportunità e la presenza della Val d’Aosta, la presenza dei rappresentanti della Svizzera, ci portano ad interrogarci se questo concetto non sia interessante per tutto il nostro Stato.
Tutti gli esempi che ha fatto l’ingegnere, rispetto alla partecipazione, nel suo Comune, in realtà sono su una scala di 11.000 abitanti. Il problema della scala, sulla quale si applicano questi nuovi metodi di partecipazione, secondo me è un problema assolutamente dirimente, nel senso che, a seconda dell’entità della scala sulla quale si applicano, questo diventerà un modello positivo.
Questa idea, che in qualche maniera questo concetto nuovo di rappresentanza, che
siamo tutti chiamati a interpretare, possa trovare, qui, in questa regione alpina, una sua capacità, credo sia l’unica modalità con cui riusciremo a difendere, nel futuro, la nostra specialità. Non la difenderemo sicuramente dicendo che siamo i più bravi, che siamo speciali, che la storia ce lo riconosce: sì, anche quello, ma se non siamo in grado di reinterpretare in maniera nuova e positiva, innovativa, le ragioni per le quali possiamo essere considerati “speciali”, un po’ diversi dal resto del territorio, credo non faremo tantissima strada.
Al di là di questo disegno di legge, che il Consiglio provinciale esaminerà nelle prossime settimane, io credo che avremo un’altra grande possibilità di fare in modo che questo istituto della partecipazione possa trovare una vera e pratica applicazione: quello della riforma istituzionale. All’interno di quella riforma, che è su una scala più piccola, secondo me si giocherà molto su questo aspetto della ritrovata capacità che le nostre valli si identifichino in un progetto di futuro il più condiviso possibile. Secondo me lì ci sono tutte le condizioni di massa sulle quali fare questo tipo di valutazione, ci sono tutte le condizioni dell’informazione e tutte le condizioni, anche storiche, che vanno rispolverate e riattualizzate. Nel tempo le nostre valli hanno sempre avuto questa capacità, sulle scelte dirimenti e fondamentali, di ritrovarsi, discutere e litigare, ma poi di condividere in maniera unitaria questo processo.
Nel disegno di legge ci sarà uno specifico capitolo dedicato alle pratiche partecipative, perché io credo che saranno l’unica cosa che, fra la democrazia rappresentativa e la democrazia diretta, in senso stretto, quella partecipativa deliberativa possa essere quel giusto mix che permette ai nostri territori di essere sempre innovativi e, soprattutto, di spremere il meglio che essi possono dare, in termini di risorse e di idee per il futuro.
Grazie per tutto quello che avete detto in questi interventi. Credo che il Trentino ne esca un po’ più arricchito.

BRUNO DORIGATTI – Presidente del Consiglio provinciale
– Grazie Assessore. Adesso possiamo proseguire la nostra scaletta, che prevede il dibattito. Ha chiesto di intervenire Giovanni Ceri, dell’Associazione Quorum zero più democrazia.

GIOVANNI CERI – Associazione Quorum zero più democrazia
– Buongiorno, io sono il promotore nazionale di Quorum zero più democrazia, che abbiamo portato in Parlamento, iniziativa di legge popolare, che più o meno ricalca le cose che sono state dette. In più sono anche membro dell’iniziativa Quorum zero provinciale e di quella comunale, che abbiamo già discusso in Comune, dove abbiamo ottenuto il 30%, invece del quorum zero.
Andrò molto terra terra: siccome ho lavorato tantissimo ai banchetti per raccogliere le firme, racconto solo un episodio, per poi fare un’esortazione ai Consiglieri provinciali.
Mentre raccoglievo le firme mi si è avvicinato un signore anziano, che ascolta, chiede, si informa. Apro la sua carta d’identità e leggo che è nato nel 1915. Voleva firmare non tanto per sé, perché si reggeva su un bastone tremolante, quanto per i suoi nipoti e per il futuro della sua successione. Un altro esempio è stato un ragazzo appena diciottenne, che è venuto a firmare.
Questo è il segno che i cittadini sì, sono disamorati della cosiddetta politica, ma in realtà se, ad esempio attraverso questa legge, se riuscite ad entrare in questa logica di fornire ai cittadini degli strumenti per cui possano intervenire direttamente, veramente, ed essere protagonisti della res publica, allora l’interesse c’è, arriva.
Se sono chiamato a partecipare a una cosa di cui non posso decidere, non vengo. Questo è un concetto basilare della democrazia diretta. Quando, con il mio strumento, ho il potere di intervenire nella res publica, allora sì, posso interessarmene, nasce il dibattito e tutto ciò contribuisce a un feedback positivo sulle cose. Alle ultime elezioni europee io, personalmente, che sostengo la partecipazione, lo dico sinceramente, non sono andato a votare, perché è troppo staccata e non si hanno gli strumenti.
Oggi purtroppo non è stata spiegata abbastanza, questa legge: è un piccolo difetto d’informazione, si parla di diritto, di altre questioni, giustissime e molto interessanti, ma non si parla di quello che voi dovete andare a discutere e questo è un po’ controproducente.
C’è stata poca partecipazione: io, che sono uno dei promotori dell’iniziativa, ho dovuto faticare e solo grazie ad Alex sono riuscito ad essere inserito. È chiaro che questa è una conferenza di informazione ai Consiglieri, non alla popolazione, ma perché non abbiamo fatto propaganda a questa conferenza, allargandola a tutti i cittadini? Perché c’è sempre il solito vizio che siccome siete i decisori delle cose delle cose supreme, allora ritenete di dovervi preparare bene.
Il signore di 98 anni di cui parlavo prima, però, è una classica espressione della volontà di partecipare, perché poi alla fine ci troviamo con delle opere tra capo e collo, scusate la mia polemica, come quelle di Renzo Piano, e domandate ai cittadini quanto piacciono.

BRUNO DORIGATTI – Presidente del Consiglio provinciale
– Grazie, vorrei fare due precisazioni: noi abbiamo voluto questa conferenza perché è dentro il Regolamento, poi tutte le iniziative ulteriori, che possono mettere in campo i Consiglieri, o i promotori, sono legittime e produttive. Questa era rivolta ai Consiglieri, perché possano avere tutte le informazioni e i suggerimenti, anche dal dibattito, per poi andare in aula.
Tutti quelli che ne hanno fatto richiesta hanno trovato consenso. Per quanto riguarda l’informazione, è da 20 giorni sul nostro sito, su tutti i giornali. Se poi i giornali non la evidenziano, noi non possiamo intervenire.
In realtà per quanto riguarda l’applicazione del Regolamento, l’abbiamo fatta. Se vuole la mia opinione, è rivolta ai Consiglieri, non è un obbligo ma mi auguro che siano presenti. Io credo che i Consiglieri che partecipano debbano rimanere presenti per tutti i lavori, in modo particolare per il dibattito. In sala ce ne sono pochi – la Consigliera Plotegher e il Consigliere Marini – e ne sono rammaricato.
Siamo però in un periodo un po’ particolare; nel pomeriggio iniziano i disegni legge per quanto riguarda la questione dei vitalizi. Credo che in modo particolare i capigruppo, che sono entrati e poi usciti, avessero una serie di incontri.
Questo non toglie che gli altri Consiglieri avrebbero fatto bene ad essere presenti.
Grazie alla Consigliera Plotegher e al Consigliere Marini, che sono stati fino alla fine.
L’onorevole Fraccaro ha chiesto di intervenire, ne ha facoltà.

ON. RICCARDO FRACCARO – Movimento 5 Stelle
– Grazie e buongiorno a tutti. Io sono stato eletto l’anno scorso nella lista Movimento 5 stelle e mi sono trovato parte di quel gruppo sociale, il cui ruolo oggi sembra essere in crisi. Anche oggi si è affrontato il tema della crisi del potere rappresentativo, forse anche come momento di necessità di una revisione di questa forma di politica.
Questo è il punto: molto spesso si parla di crisi della rappresentanza, ma non se ne spiegano quasi mai i motivi.
A mio modesto avviso, uno dei motivi è anche la natura del potere, che viene dato ai rappresentanti. Nel giro di poche settimane io ho notato di essere stato depositario, con questa elezione del 2013, di un potere immenso perché, insieme a quasi altre mille persone, posso decidere della vita dei miei concittadini. Posso decidere quando dovranno andare in pensione, se i poveri devono diventare più poveri o meno poveri e i ricchi più o meno ricchi. Posso decidere se i nostri figli devono studiare, cosa studiare, o se scappare all’estero. Ho un potere immenso.
Posso addirittura decidere quanto io devo prendere, come retribuzione, e come dobbiamo essere rieletti dai cittadini. È un potere sconvolgente, se ci pensate.
Mi chiedo e chiedo a tutti voi: nella vostra vita, dareste mai un potere simile anche solo a vostro fratello, per cinque anni, senza poter dire nulla di quello che viene deciso?
Di fatto noi possiamo prendere queste decisioni, ma i cittadini non possono dire nulla. L’unico potere che viene dato ai cittadini è quello del referendum abrogativo, che è una presa in giro e lo dimostrano tutti i referendum abrogativi che sono stati fatti fino ad oggi.
Questo è lo stato dell’arte. Ecco perché è necessario prendere seriamente in considerazione questi strumenti.
Addirittura a quanto pare non c’è neanche più il limite della Costituzione, per l’azione dei parlamentari, a me sembra, perché noi siamo in un Parlamento eletto con una legge costituzionale, per ben tre volte, che addirittura si sta arrogando il potere di riformare la Costituzione, di riformarla radicalmente, cercando di non passare per il voto popolare, perché vuole la maggioranza dei due terzi. Questo è lo stato dell’arte.
Io faccio parte di un Parlamento che vuole fare la legge elettorale, dopo aver fatto già una legge elettorale incostituzionale ed è un Parlamento eletto con una maggioranza incostituzionale.
Addirittura, siccome siamo in Provincia, la Provincia oggi pomeriggio sta trattando dei vitalizi, dopo lo scandalo dei vitalizi. Sono più o meno le stesse forze politiche che non hanno risolto il problema e probabilmente non lo risolveranno, ma soprattutto, indipendentemente dalla soluzione o meno, faranno una legge sui vitalizi senza chiedere ai cittadini se a loro va bene, dopo averli fondamentalmente derubati. Questo è scandaloso.
Secondo me questa proposta di legge ha gli strumenti per risolvere questo problema. Io sono responsabile di questo, perché ho quel potere. Faccio non critica, ma autocritica.
Forse, però, prima di dover capire se accettare questa legge, dobbiamo metterci d’accordo su alcuni punti essenziali e gli spunti sono stati tanti.
Secondo me i punti essenziali sono due. Uno è il quorum: non si è capito, dagli interventi, se siete d’accordo o meno con l’eliminazione del quorum o con una sua riduzione. In secondo luogo, forse il punto di partenza per capire la legge che è stata proposta dai cittadini trentini è se sia giusto o meno che i rappresentanti politici decidano su loro stessi, su ciò che li riguarda direttamente, senza passare obbligatoriamente per un consenso dei cittadini, come ad esempio le retribuzioni o come la legge elettorale. Già questo sarebbe un grandissimo passo avanti.
Grazie.

BRUNO DORIGATTI – Presidente del Consiglio provinciale
– Ha chiesto ora di intervenire Simonetta Fedrizzi, Presidente della Commissione pari opportunità. Prego Presidente.

SIMONETTA FEDRIZZI – Presidente della Commissione pari opportunità
– Buongiorno a tutte e a tutti e un ringraziamento al Presidente Dorigatti, che ci ha invitato, come Commissione provinciale per le pari opportunità tra donna e uomo, invito che abbiamo accolto molto favorevolmente. Un ringraziamento anche ai relatori, per i loro interventi molto interessanti.
Qui con me è presente anche la collega professoressa Anna Simonati, abbiamo assistito assieme a questa mattinata di lavori.
Speriamo di fare cosa gradita nel sottoporre alla vostra attenzione la Carta europea per l’uguaglianza e la parità delle donne e degli uomini nella vita locale. Questo proprio in un’ottica di integrazione dei principi di pari opportunità nei processi di partecipazione della cittadinanza alla definizione delle politiche pubbliche.
È una carta che invita gli enti territoriali a utilizzare tutti i loro poteri e i loro partenariati a favore di una maggiore uguaglianza delle donne e degli uomini.
È stata elaborata e promossa dal Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa e da numerosi partner, più di trenta. È stata sostenuta dalla Commissione europea all’interno del V Programma di azione dell’Unione europea per la parità tra uomini e donne.
L’Assessore Violetta Plotegher dice che è vecchia, effettivamente lo è, ma noi volevamo chiamarla proprio perché c’è bisogno di renderla più attuale.
La Carta europea per la parità innanzitutto è destinata agli enti locali e regionali d’Europa, che sono invitati a firmarla, a prendere pubblicamente posizione sul principio della parità tra donne e uomini e ad attuare, sul proprio territorio, gli impegni definiti sulla Carta.
Per assicurare la messa in atto degli impegni, ogni firmatario deve redigere un piano di azione per la parità, che fissi le priorità, le azioni e le risorse necessarie alla sua realizzazione. Inoltre ogni autorità firmataria si impegna a collaborare con tutte le istituzioni e organizzazioni del territorio, per promuovere concretamente l’instaurarsi di una vera uguaglianza.
L’uguaglianza, come è ben noto, delle donne e degli uomini, è un diritto fondamentale per tutte e tutti e rappresenta un valore determinante per la democrazia. Per essere compiuto pienamente, il diritto non deve essere solo riconosciuto per legge, ma deve essere effettivamente esercitato e deve riguardare tutti gli aspetti della vita: la politica, l’economia, il sociale e il culturale.
Malgrado i numerosi esempi di riconoscimenti formali e i progressi compiuti, la parità tra donne e uomini nella vita quotidiana non è ancora una realtà.
Per essere compiuto pienamente, il diritto non deve essere solo riconosciuto per legge, ma deve effettivamente essere esercitato e riguardare tutti gli aspetti della vita. Nella pratica donne e uomini non godono degli stessi diritti, persistono disparità di ordine politico, economico e culturale.
Visto il tema della mattinata, l’esempio è proprio quello della disparità di rappresentanza in politica. Ad oggi abbiamo ancora una bassa partecipazione delle donne alla vita politica.
Gli enti locali e regionali, che sono gli ambiti di governo più vicini alla cittadinanza, rappresentano i livelli di intervento più idonei per combattere il persistere e il riprodursi della disparità, e per promuovere una socialità veramente equa.
Essi possono, nelle loro sfere di competenza, in cooperazione con l’insieme di tutti gli attori locali, intraprendere azioni concrete per favorire la parità.
Inoltre il principio di sussidiarietà che si applica a tutti i livelli di governo – europeo, nazionale, regionale e locale – ha un ruolo particolarmente importante per quanto riguarda l’attuazione del diritto alla parità. Gli enti locali e regionali d’Europa, pur esercitando responsabilità di diversa portata, possono e devono avere un ruolo positivo nella promozione della parità, con azioni che producano un impatto sulla vita quotidiana della cittadinanza.
I principi dell’autonomia locale e regionale sono strettamente legati al principio di sussidiarietà e, quindi, l’attuazione e la promozione del diritto alla parità devono essere al centro del concetto delle autonomie locali.
La democrazia locale e regionale deve permettere che siano effettuate le scelte più appropriate per quanto riguarda gli aspetti più concreti della vita quotidiana, quali la casa, la sicurezza, i trasporti pubblici, il mondo del lavoro, la sanità e così via.
Inoltre, il pieno coinvolgimento delle donne nello sviluppo e nell’attuazione di politiche locali e regionali permette di prendere in considerazione la loro esperienza vissuta, il loro modo di fare e la loro creatività.
Per giungere quindi all’instaurarsi di una società fondata sulla parità, è fondamentale che gli enti locali e regionali integrino completamente la dimensione di genere nelle proprie politiche, nella propria organizzazione e nelle relative procedure.
Un’effettiva parità tra donne e uomini rappresenta, inoltre, una chiave del successo economico e sociale non soltanto a livello europeo o nazionale ma anche nelle nostre regioni, nelle nostre città, nei nostri Comuni e nelle nostre realtà locali.
Nell’articolato sono stati individuati numerosi strumenti concreti a sostegno di politiche pubbliche e gender-oriented.

BRUNO DORIGATTI – Presidente del Consiglio provinciale
– Grazie Presidente. Do un altro dato: hanno partecipato 13 Consiglieri, l’abbiamo verificato a seguito dell’intervento.
Diamo adesso la parola a Stefano Logano, estensore del disegno di legge. Prego.

STEFANO LONGANO – Estensore del disegno di legge di iniziativa popolare “Iniziativa politica dei cittadini. Disciplina della partecipazione popolare, dell’iniziativa legislativa popolare, dei referendum e modificazioni della legge elettorale provinciale”
– Grazie. Per prima cosa vorrei ribadire che questa legge non è di contrasto. La democrazia diretta, così come interpretata da questa legge, è un complemento, non una sostituzione. La maggior parte delle decisioni viene presa, come è giusto e come è normale, dagli organismi rappresentativi.
Il fatto, però, che i cittadini possano effettivamente intervenire in maniera concreta, approvando direttamente un progetto di legge, è un meccanismo di controllo e di armonizzazione della volontà comune tra le tornate elettorali. Secondo me questo va valorizzato.
Togliere questa possibilità – perché c’è stato anche, nell’intervento dell’Assessore Daldoss, un accenno a questo – limiterebbe di molto la portata della legge, anche rispetto agli interventi legislativi ordinari.
Si parla poco del fatto che la Svizzera in realtà è uno dei paesi in cui la realtà partecipativa è più elevata, abbiamo anche fatto notare al Consiglio, in Commissione, quando c’erano delle note sul modificare il procedimento legislativo, che in Svizzera è normale, quando si inizia un procedimento legislativo, chiedere prima dell’inizio quali sono le persone interessate, farle intervenire, elaborare il tutto, di modo che tutto il processo sia più partecipativo e più pubblico possibile.
Ci piacerebbe che questo venisse recepito, anche nella futura elaborazione del regolamento consiliare.
L’altra questione che è stata sollevata è quella delle istanze della minoranza. Ringrazio il professor Toniatti per aver citato il codice di buone pratiche, che per noi è uno degli elementi fondamentali nell’applicazione di questi strumenti.
Ovviamente non si può andare contro il diritto superiore. Il diritto superiore prevede anche tutte quelle forme di protezione delle minoranze, che sono il fondamento del vivere civile. Questo è un elemento imprescindibile.
Le istanze delle minoranze, però, se non si manipola troppo il numero di firme, ad esempio, possono essere, invece, incentivate, perché magari non trovano visione nei rappresentanti e si riesce a discuterne.
Un esempio svizzero è quello dell’esercito, anche qui i rappresentanti sono importanti: ci fu l’iniziativa per una Svizzera senza esercito e in quel caso i cittadini respinsero l’iniziativa, ma la respinsero solo con il 70% di voti a favore. Quel 30% di persone che chiesero l’abolizione dell’esercito venne tenuto in considerazione proprio dalla rappresentanza, introducendo per la prima volta il servizio civile, che prima non era previsto.
È una questione importante, su come poi si svolge il dibattito. Non è mai solo sì o no, se il dibattito è serio.
Abbiamo scritto un documento su quelli che noi consideriamo punti essenziali e ci piacerebbe che non venissero stravolti, nella discussione consiliare, perché sono quelli che portano i frutti.
Mi piace ricordare un’ultima cosa di Mortati, durante la discussione in Assemblea costituente, quando si parlò degli istituti referendari: si parlò a lungo dell’esempio svizzero e lui era a favore dell’introduzione sia dell’iniziativa che del referendum confermativo, che sono i due elementi fondamentali per noi. In quell’occasione arrivò a dire che sono importanti sia per la crescita della coscienza politica dei cittadini, che per mettere un freno allo strapotere dei partiti. Lo diceva nel ’48. Grazie.

BRUNO DORIGATTI – Presidente del Consiglio provinciale
– Possiamo procedere dando la parola a Lucia Fronza Crepaz.

LUCIA FRONZA CREPAZ – Formatrice della Scuola di preparazione sociale – Trento
– Vorrei fare tre premesse e tre proposte. La prima premessa: il tema della partecipazione non si può scegliere, o lo governiamo o lo subiamo.
La seconda premessa: qui in Trentino Folgheraiter, un sociologo nostrano, ha scritto un interessantissimo libretto che si chiama “Sorella crisi”. Bisogna fare della crisi un tempo di opportunità. La società è completamente cambiata, occorre che gli istituti rappresentativi cambino altrettanto.
Sono molto d’accordo con quanto diceva Daldoss: facciamo di questa stagione di riforme istituzionali una possibilità di riformare, in termini partecipativi, la Comunità di Valle, le fusioni e unione dei Comuni, eccetera. Mi fido di voi.
Terza premessa: l’autonomia. È stato detto che l’autonomia è un laboratorio, ce lo siamo guadagnato, perché eravamo gente che, all’inizio di questo millennio, ha richiesto, quando è stato istituito il principato, di potere, dentro le nostre valli, tenere in considerazione gli usi e costumi dell’autogoverno. Facciamo dell’autonomia il laboratorio.
È giusto che voi difendiate in termini finanziari la nostra autonomia, ma credo che la difesa maggiore stia nel farne un momento di evoluzione e di laboratorio che poi serva a livello nazionale e internazionale. In questo mi associo anche alla richiesta della Consigliera di parità.
Passando alle proposte, vorrei farne tre, tra le tante che sono state già fatte.
Facciamo una legge coraggiosa, il quorum zero mi sembra una cosa importante. Prendiamo dalla Toscana l’idea di fare una sunset law, cioè una legge che, proprio perché coraggiosa, si autovaluta e dà un tempo preciso. Facciamo un esperimento.
La seconda proposta: il finanziamento. Perché una legge sia vera c’è bisogno di un finanziamento e io vedo in questo finanziamento due finalità.
La prima è l’educazione: bisogna fare una campagna nelle scuole di preparazione sociale come la nostra, di politica. Noi ci siamo illusi, tempo addietro, come scuola di politica, di farne un luogo in cui avremmo tirato su i cavalli di razza da mettere poi nelle liste. No: bisogna che facciamo una scuola che faccia crescere i cittadini. Dentro i cittadini poi ci saranno anche le vocazioni politiche.
Da una parte, quindi, un finanziamento per un’educazione dei cittadini alla partecipazione, dall’altra dare lo spazio agli enti locali di creare dei processi partecipativi.
La terza proposta è il dibattito pubblico. Secondo me sopra una certa cifra bisogna assolutamente che la gente venga coinvolta; deve essere obbligatorio. Faccio l’esempio dell’inceneritore: il sapere dei cittadini ha detto molto più di quanto l’amministratore era riuscito a fare, magari pressato da lobby più o meno lecite.
Facciamo una legge coraggiosa, facciamo dell’autonomia un luogo capace di dare novità, per noi e per il resto del mondo. Grazie.

ALEX MARINI – Primo firmatario disegno di legge di iniziativa popolare “Iniziativa politica dei cittadini. Disciplina della partecipazione popolare, dell’iniziativa legislativa popolare, dei referendum e modificazioni della legge elettorale provinciale”
– Vorrei semplicemente esprimere la soddisfazione per la qualità di tutti gli interventi e ringraziare i funzionari dell’ufficio di Presidenza, che hanno permesso l’organizzazione di questo evento. Inoltre vorrei ringraziare il Presidente, perché ha risposto alle nostre sollecitazioni, invitando diversi soggetti. Grazie alle nostre sollecitazioni abbiamo riempito, perlomeno parzialmente, questa sala. Ringrazio i relatori, che hanno portato un contributo molto interessante in termini di aspetti giuridici, sulle tradizioni della democrazia, le applicazioni della democrazia, le pratiche quotidiane e anche le proiezioni future, che potrebbe avere la democrazia, che sono contenute nel nostro disegno di legge.
È stato dimostrato che la democrazia deliberativa e la democrazia diretta lavorano in sinergia e che non sono alternative alla democrazia rappresentativa ma ne sono un complemento necessario, per garantire che la democrazia rappresentativa funzioni correttamente.
Da due anni e mezzo lavoriamo su questo disegno di legge, prima per scriverlo, poi per raccogliere le firme e poi ancora per aspettare che i Consiglieri provinciali lo prendessero in considerazione e lo trattassero in modo degno. È vero: tredici Consiglieri hanno timbrato il cartellino, sono venuti e sono usciti. Hanno partecipato integralmente alla seduta solo in sei o sette, l’unica superstite è Violetta Plotegher. Credo che questo sia un dato estremamente triste, che ci dimostra come non possiamo lasciare tutto il potere nelle mani dei rappresentanti politici.
Le forze politiche che hanno rappresentato, riassumendo, sono il PD, che ha dimostrato di essere attento a questo tema – purtroppo non ci sono Assessori del PD in Giunta che abbiano partecipato. L’unico Assessore è Daldoss, peraltro, l’unico dei non eletti, fra gli Assessori. Non so se avrà il tempo, la disponibilità, l’occasione, in questi quindici giorni che ci separano dal voto finale in aula, di spiegare tutti i contenuti del disegno di legge e tutte le suggestioni che sono state espresse in questa mattinata. Lo spero tanto, anche se dubito che sarà possibile.
I partiti che hanno partecipato quindi sono PD, Movimento 5 stelle e Progetto Trentino, con Simoni. Gli altri sono stati assenti.
Questo è il punto della situazione. Io sono estremamente soddisfatto per la nostra iniziativa. In questi due anni e mezzo abbiamo tenuto un blog, abbiamo avuto circa 40.000 visite. Tenetene conto, quando dovrete votare, perché 40.000 cittadini potrebbero arrabbiarsi.
4.000 cittadini hanno sottoscritto l’iniziativa.
Un design distorto degli strumenti di democrazia diretta determina un uso distorto degli strumenti di democrazia diretta. L’esempio nazionale ce lo insegna; gli esempi della Valle d’Aosta ce li ha raccontati Louvin, gli esempi della Svizzera funzionano.
Sarà importante che, nel momento che precede il voto, i Consiglieri considerino questi aspetti, che caratterizzano un design corretto: ad esempio l’assenza del quorum, prevista anche dal codice delle buone pratiche; gli effetti vincolanti prodotti dalla consultazione referendaria, che sono la possibilità, di tutti i cittadini, di potersi esprimere su qualsiasi materia. Gli effetti sono notevoli anche sull’economia, come ha spiegato brevemente Leonello.
Grazie a tutti per la pazienza e per l’attenzione che avete prestato in queste quattro ore di conferenza.

BRUNO DORIGATTI – Presidente del Consiglio provinciale
– Ha chiesto la parola adesso Stefani.

ARMANDO STEFANI – Presidente della Circoscrizione Argentario – Trento
– Grazie. Anch’io mi associo ai ringraziamenti per questa giornata, che ritengo sia stata molto utile e produttiva.
In merito ai concetti, mi rifaccio ai principi di Lucia Crepaz, per quanto riguarda l’importanza della partecipazione.
La cosa che, personalmente, ho trovato particolarmente interessante è l’esperienza della Toscana, laddove decide di supportare, anche finanziariamente, processi partecipativi, processi che cercano di facilitare il coinvolgimento, la discussione e la partecipazione, quindi il far circolare le idee.
Penso che questa esperienza della Toscana possa e debba essere introdotta anche nei nostri territori e mi permetto di aggiungere un altro elemento, forse perché nella mia circoscrizione, in questi anni, ho cercato di investire molto sulla partecipazione, ma non solamente sulla questione delle idee, anche in termini di competenza dei cittadini, per risolvere i problemi concretamente.
So che il Consiglio provinciale pochi mesi fa ha approvato alcuni passaggi che permettono ai cittadini del Trentino, in ogni Comune che, concordemente con l’amministrazione, ha deciso di occuparsi del bene comune, di essere assicurati. Questo è un primo passaggio.
La sintesi è: facciamo in maniera che questi processi partecipativi non riguardino unicamente il pensiero. Il pensiero è importante, è fondamentale, ma facciamo in modo che la partecipazione preveda anche la partecipazione sul piano operativo.
La crisi non solo ce lo consiglia, ma credo che nei prossimi mesi e anni la crisi ci obbligherà a inventare modelli di soluzione dei problemi concreti. Ognuno di noi non ha difficoltà a pensare alle decine di problemi possibili.
Un ultimo pensiero: facciamo in maniera che la nostra Provincia, utilizzando la propria autorevolezza e la propria competenza legislativa, non possa deliberare laddove ci si occupa di interessi personali. Facciamo in maniera che il Consiglio provinciale e regionale non possano deliberare su argomenti che riguardano interessi direttamente concernenti i Consiglieri stessi.
Mi sembra un principio base, ma tengo a ribadirlo. Grazie.

DOTT. THOMAS BENEDIKTER – Economista e collaboratore dell’Istituto per i diritti delle minoranze – Eurac
– Tengo a fare questa osservazione: anche io ho avuto modo di imparare moltissimo. Ho apprezzato tutti gli interventi, ritengo interessante l’esperienza della Toscana, che il dottor Floridia ci ha illustrato.
In uno degli interventi è venuta fuori l’idea che il modello toscano, al di là di una legge sulla partecipazione, possa sostituire un buon regolamento di una democrazia diretta. Lo dico molto amichevolmente: ho avuto questa impressione forte dalle sue parole, dottor Floridia, che lei interpreti questo approccio alla partecipazione anche come sostitutivo a un buon regolamento della democrazia diretta.
È impossibile, sarebbe pericoloso questo approccio, tant’è vero che la Toscana ha una legge sui referendum mediocre, standard, piuttosto blanda. L’unico pregio che io vedo in quella legge è che ha un quorum ridotto, riferito ai votanti delle ultime elezioni regionali.
Anche lo stesso esempio che Lei ha portato, di questo Comune di Ponte Buggianese, in cui tutta la popolazione ha pensato e discusso, seguito un percorso di dibattito e di riflessione su questi depuratori, chiarisce che ci voleva anche il secondo passo.
Lei poi ha raccontato che, infine, dopo aver chiarito i criteri di decisione e di valutazione, ha deciso il Sindaco, su tre opzioni. Un esempio di questo tipo dimostra che, alla fine, ci dovrebbe essere un regolamento che assegna al cittadino l’ultima parola.
Questo Sindaco avrebbe potuto fare un referendum con tre opzioni. Questo mi dà l’occasione di dire che vanno benissimo il dibattito pubblico, nuove forme di partecipazione, ma questo non può rimpiazzare un buon regolamento sulla democrazia diretta, perché è anche questa a creare il dibattito, ce l’ha ricordato Leonello Zaquini.
Il dibattito pubblico, in Svizzera, esiste regolarmente su tantissimi quesiti e problemi, perché, prima di una votazione, in cui tutti i cittadini possono votare, possono decidere; quel dibattito è presente. Non bisogna organizzarlo con un meccanismo molto complesso, ma viene automaticamente dalla possibilità di tutti i cittadini di andare a votare.
Per la Provincia di Bolzano, da cui provengo, e per la Provincia di Trento, sarebbe interessante ragionare in tempi brevi su una legge provinciale per la partecipazione, per sostenere questa forma deliberativa di democrazia. Come complemento vero, parimenti importante, ci dovrebbe essere una legge valida, funzionante, sulla democrazia diretta, cioè sugli strumenti referendari. Grazie.

BRUNO DORIGATTI – Presidente del Consiglio provinciale
– Il mio compito non è quello delle conclusioni, aggiungo solo un paio di considerazioni.
In primo luogo vorrei ringraziare chi è intervenuto, cioè i relatori che non solo oggi ma anche nei giorni scorsi sono stati a disposizione, al di là della discussione che si è aperta su questo tema. Un ringraziamento a loro, per il contributo ma anche per la diversità di opinioni, credo che questo possa essere un ulteriore arricchimento per quanto riguarda l’approfondimento dei temi.
Ne abbiamo necessità in Trentino, esattamente per le cose che sono state dette. Il periodo che attraversiamo è sicuramente un periodo di trasformazione, abbiamo necessità di nuovi cambiamenti e di stimoli. Tutto quello che siamo in grado di mettere in campo credo sia estremamente produttivo.
Come mi piace sottolineare, per quanto riguarda il Consiglio sulla questione dei media civici stiamo lavorando e credo che sia un versante da recuperare, da valorizzare. Valorizzarlo significa far partecipare in termini più attivi l’intero Consiglio, ma anche l’intera popolazione, che vuole mettersi all’interno delle nuove o future piattaforme.
Da questo punto di vista mi pare che il Consiglio, per quanto riguarda la mia persona, abbia l’intenzione di proseguire sotto questo versante, che potrebbe essere uno dei versanti di forte attualità. In altri paesi è stato già messo in campo; ha avuto anche degli effetti che possono essere discussi, ma di fatto è un tipo di partecipazione, che mi sembra estremamente positiva.
Penso non soltanto ai Consiglieri in aula, ma anche in commissione, attorno a un disegno di legge come questo avere una piattaforma che può portare al dibattito, accreditata a dare un contributo, è un fatto estremamente notevole, da questo punto di vista. So che in altre regioni cominciano a lavorarci. Abbiamo sentito che il Senato ci sta lavorando, a maggior ragione il Trentino, nella sua autonomia, non può rimanere indietro; deve andare avanti.
Concordo con quello che diceva l’Assessore: in Trentino la democrazia e lo sviluppo di una partecipazione ad un momento democratico rappresentano un rafforzamento della nostra autonomia.
Noi abbiamo quattro livelli istituzionali, li abbiamo voluti, c’è anche stato un referendum ed è un dibattito aperto.
Lo dico all’Assessore, che è competente: credo ci sia una serie di motivi per lavorare attorno a questo, ma c’è un motivo di fondo, che è la partecipazione alla democrazia all’interno della distribuzione di un potere dentro la nostra comunità.
Dal punto di vista fondamentale della partecipazione credo che il Trentino possa continuare su questa strada.
Aggiungo un ringraziamento al Consiglio e a chi ha lavorato, la dott.ssa Morandi e il dottor Lutteri, che hanno dato un contributo perché ci fosse un risultato positivo come quello che abbiamo avuto, con questa partecipazione.
Avrebbe potuto essere anche una partecipazione più larga.
Devo dire che molti hanno sollecitato il Consiglio, avevamo previsto un sala accanto, ma probabilmente il dibattito che si è aperto questa settimana ha ridotto la partecipazione, in quanto gli stessi relatori sono già stati coinvolti in alcuni momenti di approfondimento. Forse è venuta a calare la curiosità.
Mi sembra che il Consiglio abbia promosso esattamente quanto è previsto dall’articolo 150 del regolamento interno, a fronte della richiesta di alcuni Consiglieri, in questo caso di maggioranza.
È evidente che il Trentino ha necessità di un allargamento, in un periodo come questo, in cui la società è polverizzata: una forte partecipazione e quindi più informazione intorno a determinati temi.
Se la democrazia risponde, lo fa anche intorno ai temi che riguardano la crisi che stiamo attraversando. Se è una crisi non solo economica, se è una crisi politica, è una crisi anche delle istituzioni, e se si toglie valore alle istituzioni si toglie il dato fondamentale per quanto riguarda la libertà di questo paese.
Detto questo, ringrazio tutti voi che avete resistito fino all’ultimo. Grazie.

Video – Audio – Rassegna stampa

Sinossi della conferenza di informazione di Emanuele Sarto

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