Pensavo fosse un referendum e invece era un sondaggio

Il referendum consultivo che si svolgerà il 22 ottobre nelle regioni Veneto e Lombardia ha suscitato grande dibattito su cosa comporterà l’espressione di un si o un no al quesito referendario.

Ma proprio a partire dal quesito (ma anche da altro che dirò in seguito) questo referendum rivela il suo vero volto: un plebiscito invocato dai governi locali allo scopo di rinforzare la propria posizione, personale e partitica, in una eventuale e non esplicitata trattativa con lo Stato centrale.

In effetti i quesiti cui gli elettori veneti e lombardi sono chiamati a rispondere sono diversi. Quello Veneto vince la coppa della banalizzazione  “Vuoi che alla regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?” Quello lombardo è un po’ più articolato, politichese forbito. Ma egualmente ambiguo.

Nessuno dei due quesiti infatti prevede di approvare o respingere soluzioni concrete. Si tratta di un semplice invito a fare qualcosa che è già presente nei programmi di chi governa quelle regioni. E allora perché non è stato fatto? Perché Maroni, che è stato Ministro degli Interni, non ha esercitato in quel ruolo e in quel tempo il peso specifico di cui godeva? Il percorso poteva iniziare proprio da lì, dal lato di chi alla fine decide. I tentativi fatti si sono bloccati non perchè i governi nazionali abbiano detto no, ma perchè ogni volta si pensava di ripartire da zero.

La realtà è che ci troviamo di fronte a un costoso sondaggio, fatto per motivi che poco hanno a che fare con la sovranità popolare e molto con l’aristocrazia di chi governa.

Il danno che questo approccio arreca alle buone pratiche democratiche è enorme: si svilisce il voto dei cittadini, si danneggia il concetto di sovranità popolare, si travisa il significato di autodeterminazione.

Mortati, relatore sulle norme referendarie nella seconda sottocommissione dell’Assemblea Costituente, il 21 dicembre del 1946 ebbe a dire “ il referendum consultivo si deve scartare, perché il popolo, essendo il più qualificato organo politico dello Stato democratico, non potrebbe non vincolare, data l’autorità inerente alle sue pronunce, le quali solo apparentemente si potrebbero chiamare pareri.”

Se si fosse davvero voluto dare agli elettori la facoltà di decidere del proprio futuro lo si poteva fare: Zaia e Maroni avevano, e hanno, tutte le carte in regola per renderlo possibile.

Per attribuire vero potere decisionale ai cittadini residenti in quelle regioni basta modificare le norme esistenti che disciplinano le iniziative popolari e i referendum adeguandole agli standard migliori, come il Codice di Buona Condotta sui Referendum, della Commissione di Venezia – che si riunisce per l’appunto tre volte l’anno “sotto casa” di Zaia.

Volendo si potrebbe prevedere il potere di iniziativa legislativa per proporre al Parlamento la discussione sulle nuove competenze, ai sensi degli artt. 121 comma 2 e 116.

Volendo si potrebbe introdurre un referendum confermativo obbligatorio per approvare eventuali accordi con lo Stato, cosa prevista, per esempio, dallo Statuto della Regione Sardegna per le modifiche dello statuto stesso.

Volendo, appunto.

Ma si preferisce il sondaggio d’opinione per poi fare di quell’opinione ciò che si vuole.

Anche no, grazie.

di Stefano Longano
(lettera pubblicata oggi sul Corriere del Trentino)

Un pensiero su “Pensavo fosse un referendum e invece era un sondaggio

  1. Le parole di Mortati le ricordava anche Michele Ainis invitato alla trasmissione L’Italia sotto inchiesta: Il Popolo non si consulta, il Popolo non da pareri. Il Popolo decide.
    Peccato non abbia ancora gli strumenti per farlo.

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