Lo Stato di diritto sotto osservazione: il caso italiano e lo sguardo di Emanuele Baseggio, menzione d’onore al premio ‘Vince la democrazia’

Emanuele Baseggio ha ricevuto una menzione d’onore nell’ambito della prima edizione del bando per tesi di laurea “Vince la democrazia”, promosso da Più Democrazia in Trentino in collaborazione con l’Università di Trento.

La sua tesi “Lo Stato di Diritto dell’Unione Europea: tradizione comune o strumento di innovazione?, discussa presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento sotto la supervisione del Prof. Flavio Guella e della prof.ssa Serena Tomasi, è stata premiata per la chiarezza espositiva, la solidità del quadro teorico e l’approccio comparativo adottato.

Il lavoro affronta in modo articolato l’evoluzione del concetto di Stato di diritto nel contesto europeo, approfondendo le interazioni tra le fonti sovranazionali e i sistemi costituzionali interni, e offrendo una riflessione aggiornata su come tutelare l’equilibrio tra i poteri, i diritti fondamentali e la legalità.

La pubblicazione, lo scorso 8 luglio, della Relazione 2025 sullo Stato di diritto da parte della Commissione Europea ci offre lo spunto per tornare su questi temi di grande attualità. Ne abbiamo parlato con l’autore della tesi, per analizzare insieme il contenuto del rapporto e per comprendere quanto la riflessione accademica possa incidere sulla vita democratica e sulle politiche pubbliche.

Intervista con Emanuela Baseggio (versione pdf)

1. Quali sono stati gli stimoli – accademici, ma anche politici e culturali – che ti hanno spinto a scegliere lo Stato di diritto come oggetto della tua tesi?

La questione dello Stato di Diritto in Europa ha colto il mio interesse fin da prima di incontrarlo nei miei studi: era un argomento ricorrente nell’analisi giornalistica della situazione della democrazia e dei diritti umani in Paesi europei che, come la Polonia e soprattutto l’Ungheria, negli ultimi anni hanno subito una decisa inversione di tendenza nello sviluppo delle istituzioni democratiche, nella separazione dei poteri e in generale nel rispetto di quel complesso di checks and balances che sta al cuore dello Stato di Diritto come lo conosciamo oggi. All’università ho avuto l’occasione di approfondire l’argomento in numerosi corsi curricolari: già al terzo anno composi per un esame un articolo sulla situazione della magistratura polacca, e al quarto anno un altro paper sullo Stato di diritto in alcune sentenze europee: quei testi (e la ricerca necessaria a scriverli) sono stati il nocciolo del mio lavoro di tesi. In generale, ho sempre avvertito che il tema dello Stato di diritto fosse fondamentale per comprendere il grado generale di civiltà dei nostri Paesi, e la facoltà di Giurisprudenza a Trento mi ha dato modo di approfondire la sua importanza e i suoi risvolti sociali oltre che giuridici.

2. Dal 2020, l’Unione Europea pubblica un rapporto annuale sullo Stato di diritto nei singoli Stati membri. Secondo te, questo strumento ha contribuito a far riscoprire il concetto di rule of law anche nell’opinione pubblica italiana?

Trovo che la Relazione in sé non abbia mai avuto una copertura mediatica tale da influenzare l’opinione pubblica, trattandosi comunque di uno strumento prevalentemente informativo. Ricordo che ebbe una risonanza molto più rilevante la discussione sul Regolamento 2020/2092, che ha introdotto un regime generale di condizionalità per l’erogazione dei fondi europei legato allo Stato di Diritto, perché si avvertì la necessità di comprendere quali sarebbero stati i requisiti da rispettare. Tuttavia, in quell’occasione i media usarono spesso il termine come sinonimo ora di “democrazia”, ora di “diritti umani”: sebbene siano strettamente correlati, lo Stato di diritto non si limita a questi aspetti.

Per influire direttamente sulla formazione dell’opinione pubblica, ritengo che lo Stato di Diritto debba entrare sempre di più a far parte del diritto unitario vincolante, diventando un concetto con cui i cittadini si trovino a confrontarsi più spesso anche nella vita lavorativa e sociale ordinaria: solo in questo modo si può far scaturire un interesse di studio e approfondimento della materia in vasti strati della popolazione.

3. Dando uno sguardo alla Relazione 2025, quali aspetti ti sembrano più rilevanti per comprendere l’evoluzione dello Stato di diritto in Italia? Quali invece ti sembrano delle omissioni o dei punti deboli?

La Relazione opera ogni anno un esame suddiviso in diversi settori d’interesse, tutti importanti per avere un quadro d’insieme della tenuta delle istituzioni democratiche, della separazione dei poteri, dell’indipendenza della funzione pubblica, dell’accesso pubblico a un’informazione pluralistica e libera. Le sezioni sulla riforma del giudiziario e sulla possibile riforma del cd. “Premierato” sono senza dubbio i punti caldi su cui la Relazione si sofferma di più per via dell’impatto che possono avere sulle istituzioni, ma trovo che siano altrettanto rilevanti le sezioni in cui la Relazione evidenzia “limitato o nessun progresso”: la lotta alle lobby e il finanziamento dei partiti (pag.12-13) sono stati al centro dell’attenzione mediatica più volte in questi anni (si pensi alla questione dei balneari, oggetto di più di una sentenza del Consiglio di Stato) ma rischiano di finire nascosti sotto al tappeto in un nulla di fatto se non si mantiene il focus anche su questi aspetti.

Trovo invece che la Relazione avrebbe potuto soffermarsi di più su alcune questioni di grande importanza che invece accenna appena: rilevare che “alcuni stakeholders hanno fatto notare che figure politiche si sono espresse pubblicamente contro i magistrati” (pag.5) è un modo quanto meno eufemistico di riassumere l’aspro confronto che da mesi continua a opporre due poteri dello Stato. È vero che il paragrafo si sofferma poi sulle minacce e la necessità di protezione di alcuni magistrati, ma nel complesso avrebbe potuto esporre la questione in modo più ampio.

4. La relazione annuale ha una funzione soprattutto conoscitiva e preventiva. Ma può avere anche un impatto pratico e trasformativo? In che modo può influenzare il decisore politico, la giurisprudenza o il mondo accademico?

I tre soggetti menzionati ricevono in effetti un diverso input dalla Relazione.

Nel caso del decisore politico, la Relazione rappresenta una fase del dialogo sullo Stato di Diritto fra gli Stati membri e le istituzioni centrali. In questo ambito, è prevalente la sua funzione preventiva: la Commissione usa la Relazione anche per far notare agli Stati quali aspetti della loro azione legislativa ed esecutiva risultano carenti al punto da causare un pericolo per lo Stato di diritto. In questo modo, lo Stato ha la possibilità di mobilitarsi in tal senso, evitando l’attivazione di strumenti vincolanti o semi-vincolanti quali la Raccomandazione o la Decisione, se non addirittura sanzionatori come la procedura d’infrazione o l’attivazione della Rule of Law Conditionality.

La magistratura è forse il soggetto che avrebbe più difficoltà ad applicare la Relazione al proprio operato. Non solo, infatti, essa non è uno strumento vincolante, ma non rientra nemmeno nella cd. Soft Law. Per questo motivo, il giudice o il pm non possono porlo alla base della propria decisione. Nei pochi casi, che ho evidenziato anche nella tesi, in cui i giudici hanno posto problemi di Rule of Law a livello europeo al centro della propria decisione, potevano comunque appoggiarsi a Decisioni unitarie o sentenze della CGUE (come nel caso LM del 2018). Il carattere riassuntivo e complessivo della relazione la rende insufficientemente precisa per dare un appiglio sicuro alla decisione giudiziale.

Il mondo accademico ha nella Relazione un potente strumento di analisi e di focus che permette di rilevare i principali problemi e processi evolutivi che sta attraversando uno Stato membro dal punto di vista dello Stato di Diritto, vale a dire in molteplici ambiti: amministrazione della giustizia, libertà e indipendenza dei media, sicurezza degli investimenti…la vastità degli argomenti toccati rende la Relazione uno strumento interessante non solo per il mondo del diritto, bensì anche per l’ambito degli studi sociologici, di politica internazionale e di economia pubblica. È sì uno strumento piuttosto riassuntivo, ma permette di capire subito su cosa concentrare una ricerca più approfondita. Io stesso ho utilizzato le Relazioni sulla Polonia come base per studiare lo sviluppo e il declino dell’indipendenza giudiziale dei magistrati polacchi, ampliando poi le mie conoscenze tramite libri e articoli più specifici sull’argomento.

In sintesi, il potenziale trasformativo della relazione incontra un ostacolo nel suo mancato ancoraggio a meccanismi di immediata praticità: la sua natura preventiva non è una conseguenza accidentale, ma l’obiettivo originario della sua istituzione.

5. Nella tua tesi analizzi anche le diverse tradizioni giuridiche europee. Dove collocheresti la cultura giuridica italiana rispetto a quella francese, tedesca e anglosassone in termini di tutela dello Stato di diritto? Quali buone pratiche dovremmo ancora recepire?

Dopo la seconda guerra mondiale, i sistemi giuridici dell’Europa occidentale si sono significativamente avvicinati ai modelli costituzionali di Common Law, soprattutto per quanto riguarda l’instaurazione di sistemi di checks and balances sempre più sofisticati. L’Italia, come anche la Germania e più avanti la Spagna, si è dotata di un sistema di judicial review of legislation che in precedenza sarebbe stato impensabile, ha chiarito i poteri del Capo dello Stato e del Governo e i loro limiti più nettamente che in passato, si è dotata di un Bill of rights costituzionale non solo più ampio di quello presente nello Statuto Albertino, ma aperto a ulteriori ampliamenti per via giurisdizionale e intoccabile dalla legge ordinaria.

Così facendo, l’Italia, che durante la monarchia era incline a seguire i principi dello Stato di diritto tedesco, si è allontanata sia dal modello francese di prevalenza assoluta del Parlamento (che si rivelò incapace, da solo, di impedire l’affermazione della dittatura fascista) sia dai modelli di Rechtsstaat che prescrivevano la superiorità dell’interesse dello Stato rispetto agli individui. La struttura che si è affermata considera la garanzia del cittadino il fulcro dell’azione dello Stato, nel solco della tradizione della Rule of Law. Non è un caso che il termine inglese si sia imposto, al di fuori della discussione specialistica, come un sinonimo di Stato di Diritto.

Questo quadro di equilibro istituzionale può però entrare in dissesto a causa di alcune cattive pratiche, su cui la Relazione UE porta giustamente l’attenzione, come l’abuso dello strumento del Decreto Legge o della questione di fiducia per aggirare la discussione parlamentare. Ogni tipologia di atto prevista dalla Costituzione ha il proprio ambito e la propria portata, e favorirne uno a scapito di un altro porta con sé la scelta di valorizzare o svalutare gli organi che sarebbero preposti ai vari ruoli nella Repubblica. Non è un caso che, al culmine di un processo decennale di aumento costante del numero e della rilevanza dei Decreti Legge emanati dai Governi di ogni colore politico, sia emersa ora la proposta di eleggere direttamente il Presidente del Consiglio dei Ministri, legandolo direttamente alla volontà popolare e diminuendo il potere del Parlamento sul Governo.

6. Il rapporto della Commissione analizza esclusivamente il livello statale. Ma l’Italia è una Repubblica fortemente regionalizzata, con grandi differenze tra i diversi contesti regionali anche al netto tra regimi speciali ed ordinari. Non credi che la mancata considerazione della dimensione regionale rappresenti un vuoto informativo?

L’Unione si rivolge sempre agli Stati come interlocutori principali, lasciando poi ai membri stessi l’organizzazione interna. È per questo motivo che esistono disposizioni come l’art.120 Cost., che prevede l’avocazione allo Stato di funzioni regionali in caso di grave inadempimento: poiché è lo Stato a rispondere a livello comunitario di ogni mancanza interna, spetta allo Stato assicurare un’uniforme applicazione del diritto e delle garanzie dei cittadini.

Va inoltre considerato che l’Italia è sì uno Stato regionale, ma non federale: la quasi totalità degli aspetti considerati dalla Relazione (penso all’amministrazione della giustizia, alla libertà di stampa, alla lotta alle lobby interne e al conflitto di interessi, all’Autorità Anticorruzione) sono ambiti di competenza statale, sui quali le Regioni (specie quelle a statuto ordinario) influiscono solo indirettamente, assicurando l’efficienza dell’amministrazione e integrando le leggi statali in alcuni campi a competenza concorrente. La Relazione, che cerca di fornire indicazioni e – implicitamente – di consigliare una direzione legislativa in tali ambiti, nel contesto italiano non può che rivolgersi allo Stato per incitare un cambiamento.

7. La relazione non si sofferma sulle leggi elettorali, eppure la qualità delle regole elettorali è fondamentale per garantire il pluralismo, la rappresentanza e il bilanciamento tra i poteri. Non pensi che questa omissione sia un limite, anche alla luce delle disfunzioni che l’Italia ha vissuto in materia negli ultimi decenni?

Anche in questo ambito, la Relazione risente del generale andamento dei rapporti fra Unione e Stati membri. La legge elettorale fa parte del più ampio settore della rappresentanza elettiva e del funzionamento della macchina democratica, nel quale l’Unione non ha alcuna competenza diretta. Essa deve quindi rispettare rigorosi limiti per non subire l’accusa di ingerenza abusiva in materie di piena sovranità statale, in un periodo in cui il dibattito politico è spesso particolarmente severo con l’azione europea, da più parti criticata per la tendenza ad ampliare per analogia e necessità di procedimento gli ambiti e le materie in cui opera non solo con proposte e commenti, ma anche con direttive e sanzioni.

Senza dubbio, la rappresentanza elettiva è una componente fondamentale dello Stato di diritto moderno in tutte le sue espressioni, perché uno Stato che esiste per favorire la prosperità dei suoi cittadini non può esimersi da un funzionamento profondamente democratico a ogni livello.

L’Unione ha dunque uno spiraglio di intervento in materia, ma deve attenersi a criteri di particolare gravità per censurare il sistema elettorale di uno Stato membro: qualora le elezioni fossero manovrate, disattese o del tutto non rappresentative, l’Unione senza dubbio interverrebbe, ma probabilmente – seguendo lo stesso ragionamento finora sostenuto dalla giurisprudenza sullo Stato di Diritto in ambito giudiziario – lo farebbe per evidenziare che uno Stato non democratico è incapace di implementare le politiche dell’Unione in modo equilibrato e coordinato con gli altri Stati, causando una breccia nella mutual trust che permette il funzionamento dell’economia europea integrata. Le elezioni nazionali devono insomma soddisfare dei criteri minimi, che si possono riassumere con i requisiti che l’art.14 par.3 del Trattato sull’Unione Europea richiede per le elezioni del Parlamento Europeo organizzate negli Stati: il voto dev’essere “a suffragio universale diretto, libero e segreto”. È implicito che, una volta tenute le elezioni degli organi nazionali o territoriali, le decisioni emerse dalle urne devono essere rispettate nella composizione degli organi, senza brogli, annullamenti pretestuosi o modifiche causate da organi non elettivi: oltre questi requisiti l’Unione non può pretendere un determinato funzionamento della democrazia degli Stati membri.

Per questi motivi, finché il sistema elettorale italiano, pur difettoso e criticato financo dalla Corte Costituzionale, assicura una rappresentanza democratica di livello accettabile, evitando che il Parlamento si trasformi in un pupazzo del Governo, l’Unione ha un limitato spazio di manovra per esprimersi su una materia che sta al cuore dell’identità nazionale dei singoli Stati.

8. Infine, la partecipazione diretta dei cittadini non viene quasi mai menzionata. Eppure l’Italia è stata sanzionata dall’ONU per i troppi ostacoli al diritto di iniziativa popolare. Il quorum referendario e l’assenza di firma digitale a livello regionale restano nodi irrisolti. Secondo te, non dovrebbe esserci un’attenzione maggiore a questi aspetti nella valutazione dello Stato di diritto da parte dell’UE?

Riguardo la democrazia diretta vale un discorso non dissimile da quello esposto per la legge elettorale. Essa fa parte di un settore interno, nel quale l’Unione può intervenire forse ancor meno che nella legge elettorale.

Lo Stato di Diritto europeo ha certamente come premessa necessaria la sussistenza di un effettuvo regime democratico, ma delle due principali forme di democrazia – diretta e rappresentativa – la seconda è ritenuta sufficiente a supportare un sistema di rule of law, purché sia effettiva nel rappresentare la volontà popolare (e qui si ritorna alle questioni legate alla legge elettorale). Si potrebbe obiettare che la democrazia rappresentativa, lasciata sola, rischia di diventare una dittatura della maggioranza. L’Unione ha però storicamente considerato che il miglior rimedio a questo rischio risieda nell’effettiva possibilità per i cittadini di adire organi giurisdizionali che assicurino la difesa dei diritti costituzionali individuali dall’azione dello Stato (o comunque degli organi democratici che esprimono la maggioranza), non nella democrazia diretta.

Finché sussiste una democrazia rappresentativa multilivello e ben cementata nel processo legislativo, com’è la struttura italiana di Parlamento e Consigli territoriali, l’Unione non ha margine d’intervento per censurare le carenze del processo di democrazia diretta; l’interesse dell’Unione per questo strumento non si può dire particolarmente alto, considerando anche che tutto il diritto primario dell’Unione intende la democrazia nella sua forma rappresentativa, e anche l’ICE, cioè l’iniziativa legislativa popolare, non comporta la realizzazione di un referendum, ma solo di un impulso per l’opera legislativa delle istituzioni centrali.

❤️❤️ Il tuo 5 per mille per una democrazia migliore! ❤️❤️

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