Il 6 settembre l’Associazione Culturale Lavisana ha organizzato una Conferenza, nella spendida cornice del Palazzo de’ Maffei, dal titolo “dalla Carta di Regola allo Statuto Comunale: la democrazia di ieri e oggi“.
L’aspetto culturale per il nostro comitato è sempre stato estremamente importante. Non per nulla l’art. 2 della proposta di legge di iniziativa popolare che abbiamo proposto per il miglioramento degli istituti di partecipazione popolare include un impegno a incentivare la formazione degli studenti delle scuole provinciali sul tema della cittadinanza, della democrazia e degli strumenti di partecipazione. E d’altronde lo stesso Consiglio d’Europa considera l’educazione essenziale per promuovere i valori fondanti della nostra società: democrazia, diritti umani e stato di diritto.
Abbiamo quindi accolto con grande piacere l’invito ad affrontare il tema della partecipazione diretta dei cittadini al governo della comunità, e dei suoi beni comuni, prevalente nelle nostre comunità per circa 600 anni. Con l’interessante parallelo che queste forme di autogoverno erano diffuse su tutto l’arco alpino, e in particolare forme simili caratterizzavano l’autogoverno dei cantoni rurali svizzeri. Quando alla fine del 1800, le riforme politiche hanno portato in tutta Europa a forme istituzionali con parlamenti di rappresentanti eletti, in Svizzera, anche sulla base proprio delle istituzioni dei cantoni rurali, sono state inserite nelle Costituzioni Cantonali e Federale le prime forme di intervento diretto dei cittadini nelle scelte legislative, modalità che raffinate ed estese hanno poi caratterizzato tutta la sua storia politica.
Gli interventi sono stati divisi in tre parti. La prima parte è stata dedicata all’inquadramento delle forme di governo dalla democrazia ateniese al republicanesimo americano, e all’importanza della sussidiarietà, e quindi delle comunità locali, in un sistema di governo funzionante.
La seconda parte, quella più storica, nella quale Andrea Casna ha parlato di carte di regola e di come ogni comunità avesse propri istututi che riflettevano le attività specifiche della comunità stessa.
Nella terza parte invece abbiamo parlato di cosa si potrebbe fare per migliorare gli strumenti di partecipazione alla vita comunitaria comunale introducendo gli strumenti presenti in Svizzera, e in fondo recuperando le tradizioni trentine.
Abbiamo diviso, per comodità di lettura, in più articoli gli interventi della serata. Qui di seguito trovate la mia relazione scritta per la prima parte. Nel prossimo post la relazione di Andrea Casna. E infine la terza parte sarà oggetto dell’ultimo post.
Potete anche ascoltare l’audio integrale della serata nel sito dell’Associazione Culturale Lavisana. Come spesso accade, gli interventi si sono un po’ discostati dagli scritti. Inoltre alla fine vi è anche stata una parte di interazione con il pubblico, che è sempre quella che personalmente trovo più stimolante.
La prima parte della serata. Le forme di governo e le comunità locali.
Inizierò subito citando il preambolo della Costituzione Svizzera:
Preambolo
In nome di Dio Onnipotente,
Il Popolo svizzero e i Cantoni,
Consci della loro responsabilità di fronte al creato,
Risoluti a rinnovare l’alleanza confederale e a consolidarne la coesione interna, al fine di rafforzare la libertà e la democrazia, l’indipendenza e la pace, in uno spirito di solidarietà e di apertura al mondo,
Determinati a vivere la loro molteplicità nell’unità, nella considerazione e nel rispetto reciproci,
Coscienti delle acquisizioni comuni nonché delle loro responsabilità verso le generazioni future,
Consci che libero è soltanto chi usa della sua libertà e che la forza di un popolo si commisura al benessere dei più deboli dei suoi membri, si sono dati la presente Costituzione.
Libero è soltanto chi usa della sua libertà. Quando mi hanno chiesto di indicare una breve frase a illustrazione dell’intervento di stasera ho citato una frase di James Madison, uno dei padri della Costituzione Federale degli Stati Uniti d’America che collega la libertà alla conoscenza (The advancement and diffusion of knowledge is the only guardian of true liberty) e ho saputo di essere stato classificato per questo come un potenziale sovversivo.
Devo ammettere che la conoscenza si sia spesso rivelata un po’ sovversiva, in quanto modifica il modo con cui guardiamo il mondo e le nostre aspettative e convinzioni su cosa sia possibile e cosa no.
Però non mi ritengo un sovversivo. Solo una persona curiosa. La curiosità mi ha portato a leggere sempre moltissimo, a conseguire una laurea in fisica e a trovare la mia strada professionale nel mondo di Internet, che è il mezzo più potente fino ad oggi inventato per scambiare informazioni con tutto il mondo. E la curiosità mi porta spesso a farmi delle domande e a cercare delle risposte.
Oltre la curiosità, sia la laurea che il lavoro mi hanno portato a conoscere e frequentare persone di tutto il mondo. E una delle domande che mi sono spesso fatto è: perchè la qualità delle istituzioni e della politica è migliore, spesso molto migliore, nei paesi a noi confinanti che nel nostro?
Eppure l’Italia ha inventato e diffuso il diritto nel mondo, e il diritto romano, insieme al cristianesimo e alla filosofia aristotelica, è un fondamento della civiltà europea.
Però è molto lontana dall’essere uno stato di diritto.
All’Italia, e alla civiltà romana in particolare, si deve la diffusione della cultura europea, e sempre in Italia si è sviluppato il rinascimento. Però siamo quelli che meno conoscono la propria cultura e la sanno valorizzare.
In Italia sono state fondate le prime università, e qui vi sono state le prime donne laureate al mondo (Elena Lucrezia Corner, Veneziana, Università di Padova, 1678) e la prima docente universitaria, e seconda laureata (Laura Bassi, Bologna, 1732, Fisica).
Però le università italiane non sono tra le migliori in Europa, e certamente l’Italia è lontana dai primi nella parità di genere.
Nel nostro Trentino le cose vanno marginalmente meglio, in tutti i settori, ma siamo comunque lontani dai nostri vicini. Potrei, maliziosamente, attribuire questo al fatto che siamo parte dell’Italia da meno tempo. Ma siamo anche più vicini ai migliori esempi mondiali, ma questo, purtroppo, non ci ha influenzato molto. Certo meno che i difetti italiani.
In effetti l’esempio migliore che abbiamo come istituzioni è la molto vicina Svizzera, che confina direttamente con la nostra regione. Qui potrei essere tacciato di parzialità, in quanto mia moglie e i miei figli hanno la doppia cittadinanza italiana e svizzera.
In realtà questo mi ha fatto approfondire come funzionano le istituzioni in Svizzera ed è interessante come da situazioni simili, sia geografiche che istituzionali, si sia poi giunti a ordinamenti radicalmente differenti. In particolare gli istituti di autogoverno delle comunità locali avevano strutture molto simili, però oggi ci troviamo con comuni che funzionano in modo completamente differente, in particolare riguardo proprio alla partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica.
Per iniziare farò una succinta analisi del significato di democrazia. Sia quello “vero” che quello che gli attribuiamo. Con anche degli esempi di come si sono evolute le istituzioni in Svizzera.
Poi faremo un breve confronto tra gli istituti di autogoverno passati e presenti del comune di Lavis, attraverso la sua carta di regola e il suo attuale statuto.
Inizierò con una piccola provocazione. Chi di voi crede che la nostra forma di governo sia una democrazia? E non intendo se pensate che teoricamente si, ma praticamente funziona male.
Intendo proprio se sia da considerarsi in linea di principio una democrazia.
La risposta è no. Tecnicamente la nostra forma di governo non è una democrazia.
E questo è ben noto fino da quando si è iniziato a sistematizzare e discutere di quali siano le forme di governo di una comunità. Dal VI secolo avanti Cristo. I più famosi che ne hanno scritto sono la nota triade Socrate, Platone, Aritotele, che hanno posto le basi del pensiero filosofico occidentale attorno al V secolo avanti Cristo.
É interessante notare che tra loro era dibattuto il fatto se la democrazia fosse o meno una forma “corrotta” di governo.
Platone la considerava la forma virtuosa di governo di molti, che si corrompeva nella demagogia, mentre Aristotele considerava forme “pure” di governo la monarchia, dove il monarca era un filosofo illuminato che guidava la comunità, l’aristocrazia, da aristos, il governo dei migliori e la timocrazia, il governo si partecipativo, ma i cui diritti di partecipazione dipendessero dal censo, ossia fare parte di una o più classi sociali. Per esempio a Sparta essere dei guerrieri. La forma “corrotta” della monarchia è la tirannide, della aristocrazia l’oligarchia (il governo di pochi) e della timocrazia appunto la democrazia.
La democrazia era il migliore dei governi corrotti. Il suo problema era essere soggetto al problema della dittatura della maggioranza. Ossia nella democrazia “pura” non vengono adeguatamente considerati i diritti delle minoranze, e per questo è soggetta a ribellioni, alla possibilità di trasformarsi in tirannide.
Tommaso d’Acquino considerava la timocrazia un governo in cui fossero tenuti in cosiderazione equamente le istanze dei ricchi e dei poveri, mentre la democrazia considerava solo le istanze dei poveri, che erano la maggioranza.
Per Aristotele era importante che il governo portasse ad una pace sociale. Era quindi fondamentale che vi fossero dei meccanismi che, temperando il principio di maggioranza, garantissero che venissero prese decisioni che non danneggiassero una qualche componente della società.
Il principale baluardo per Aristotele era la supremazia delle leggi. In particolare di quella costitutiva della polis, che oggi chiameremmo Costituzione.
Aristotele, nella Politica, afferma che “il cittadino in senso assoluto non è definito da altro che dalla partecipazione alle funzioni di governo e alle cariche pubbliche”
Perchè si abbia una democrazia è necessario, anche se non sufficiente, che vi sia, almeno in linea di principio, la sostanziale possibilità per chiunque di ricoprire le cariche istituzionali. Per questo la forma principe di selezione in una democrazia è l’estrazione a sorte. Per cariche che richiedano requisiti o conoscenze particolari è possibile una selezione ex-ante per valutare il possesso di tali requisiti, ma poi la scelta viene di preferenza effettuata per estrazione, meccanismo che evita possibilità di corruzione e che permette effettivamente a tutti di avere pari opportunità di ricoprire la carica.
Era poi vietato ricoprire la stessa carica due volte consecutivamente.
Inoltre tutte le decisioni più importanti, quali la ratifica delle leggi, o le dichiarazioni di guerra, venivano prese dall’assemblea di tutti i cittadini maggiorenni, ossia di più di 20 anni, che era chiamata Ekklesia.
Senza entrare nei dettagli, chi richiederebbero una conferenza apposita, è interessante vedere come il principio di preminenza delle leggi e di controllo dell’operato e della legittimità delle decisioni dei magistrati operava ad Atene nel periodo della “costituzione” di Clistene.
Il territorio dell’Attica era stato diviso in 100 demi, corrispondenti se vogliamo ai nostri comuni, con una certa autonomia amministrativa. Questi poi erano stati raggruppati in 10 tribù, che cercavano di mescolare demi differenti (di montagna, i più poveri), di pianura (normalmente agricoltori e proprietari terrieri) e costieri (composti per lo più da commercianti). Questo per avere in ogni tribù una composizione quanto più eterogenea della società del tempo.
Da ogni tribù ogni anno venivano estratti 50 membri, che andavano a comporre la Bulé, l’assemblea civica, che era quindi composta da 500 membri. Ogni gruppo di 50 a turno durante l’anno assumeva la pritania, ossia la guida della Bulé, che durava poco più di un mese. Ogni giorno tra i pritani in carica veniva estratto il presidente, l’epistates, che custodiva i sigilli di stato e le chiavi del tesoro.
Prima di poter entrare in carica i beleuti uscenti verificavano la sussistenza dei requisiti di quelli entranti, la dokimasia. Confrontare con l’autoreferenzialità assoluta dei nostri organi costituzionali. Che arriva fino all’autodichia.
Il controllo dell’operato di tutti i magistrati pubblici era serratissimo. Alla dokimasia erano sottoposti tutti. I magistrati poi potevano essere soggetti a processi per violazione delle leggi su denuncia di qualunque cittadino in ogni momento. Inoltre alla fine di ogni pritania vi era un controllo periodico, e un’altro controllo dell’operato veniva effettuate alla fine del mandato.
Tutti i controlli, così come le sedute della Bulé, erano pubblici.
Al controllo di legittimità delle proprie decisioni rispetto alle leggi era sottoposta persino l’Ekklesia. Ogni cittadini poteva chiedere ad una giuria di riesaminare, ed eventualmente annullare, le decisioni dell’Ekklesia stessa. Ovviamente sulla base di una eventuale violazione dei principi di base. Della Costituzione diremmo oggi.
Ovviamente le giurie erano scelte estraendo a caso il nome dei giurati.
Per quanto noi spesso facciamo riferimento alle radici delle nostre forme di governo alla democrazia ateniese, non vi è nulla di più sbagliato.
Le nostre forme di governo, che per altro chiamiamo democratico, derivano essenzialmente da elaborazioni teorico-istituzionali settecentesche sviluppate dai movimenti illuministici e liberali.
Anche qui l’argomento è complesso e necessiterebbe di ben più di una conferenza.
Ma per sintetizzare la forma di governo che abbiamo, ossia quella che chiamiamo democrazia rappresentativa, è stata concepita come forma di governo repubblicana, volutamente in contrasto con un governo democratico.
Il dibattito all’interno della convenzione per la stesura della Costituzione americana è illuminante da questo punto di vista. James Madison, che ho citato nella locandina, riteneva che fosse necessario che sia la funzione legislativa che quella esecutiva venissero esercitate da un ristretto gruppo di persone, che sarebbero state elette sulla base della loro notorietà, che si supponeva avrebbero acquisito per le loro capacità. Degli ottimati, appunto.
Costoro sarebbero stati “costretti” a seguire la volontà popolare, e soprattutto il bene comune, da una serie di “checks and balances”, ossia controlli e equilibri di potere.
Tra questi di particolare importanza la separazione assoluta e rigida dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, la trasparenza e in generale l’accountability di tutti i funzionari, elezioni frequenti per poter punire o premiare i comportamenti dei singoli, le elezioni basate su “constituency”, ossia su collegi elettorali uninominali. E soprattutto la rule of law, ossia quello che traduciamo come stato di diritto. Tutti sono sottoposti alla legge in ugual modo, senza distinzione alcuna.
In ogni caso questa concezione di governo derivava da una concezione filosofica, sviluppata in quel periodo, che riteneva l’uomo portatore di diritti universali che nessuna legge e nessun ordinamento umano poteva conculcare.
Inoltre vi era una assoluta sfiducia nei poteri costituiti, anche se eletti, e quindi le istituzioni dovevano essere il più leggere possibili, dovendo avere come unico scopo la protezione di questi diritti universali.
Montesquieu, il teorizzatore della separazione dei poteri, diceva che il potere corrompe, e il potere assoluto corrompe assolutamente.
James Madison, sempre lui, diceva “L’essenza del Governo è il potere; e il potere, affidato come deve essere a mani umane, sarà sempre soggetto ad abusi.”
Non per nulla, pur teorizzando la superiorità dei sistemi di democrazia rappresentativa, supportava il diritto dei popoli a ribellarsi ai governanti che non li rappresentassero. Basta leggere la dichiarazione d’indipendenza americana per averne un idea.
La democrazia rappresentativa ha il proprio fulcro nelle elezioni. É il solo momento in cui il popolo possa effettivamente esprimersi.
Attenzione, non bastano le elezioni perchè una forma di governo possa definirsi legittimato. Altrimenti il governo più legittimato in assoluto in Italia sarebbe quello di Mussolini. Nelle elezioni del 1929 il plebiscito sulle sue liste vide la partecipazione del 91,5% degli elettori, e ottenne il 98,33% di si dall’elettorato, e nel 1934 l’affluenza fu del 96,2 e i si alla lista unica il 99,84.
La nostra esperienza direi che mostra chiaramente come le nostre forme di democrazia rappresentativa siano diventate con il tempo delle forme di governo oligarchico (qualcuno ha pensato casta?).
Per esempio Bertrand de Jouvenel, politologo francese, diceva che: “La democrazia rappresentativa è la finzione attraverso la quale i membri della società sono cittadini solo un giorno e sudditi per quattro anni.”
Certamente uno dei problemi è la mancanza di un sistema di controlli incrociati efficaci, nonchè di istituzioni senza contrappesi forti che sappiano evitare il perseguimento di obiettivi particolaristici.
In Italia mi pare particolarmente evidente che oligarchia lo sono divenuti ancor più che i politici i funzionari statali che occupano i vertici delle istituzioni non elettive. E che di fatto non hanno nessuno strumento di controllo esterno del loro operato.
Inoltre sempre in Italia, dove non si è mai di fatto avuto uno degli strumenti di bilanciamento e controllo diretto dei rappresentati costituito dal collegio elettorale uninominale, abbiamo uno strapotere dei partiti che hanno perseguito più il loro interesse particolare che quello generale del paese, basta vedere a quale legge elettorale siamo arrivati.
A questo proposito, è molto istruttivo questo spezzone di un celebre monologo di Gaber:
Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola “democrazia” deriva dal greco e significa “potere al popolo”. L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere al popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto.
Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se lo incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo.
Qui per altro si evidenzia un’altro problema, che è quello della ulteriore mediazione dei partiti rispetto al rapporto cittadini-rappresentanti.
Tutto questo sta portando in tutto il mondo occidentale ad una sempre maggiore sfiducia per la politica. E questo è certamente un danno per la società tutta. Il problema è spesso discusso anche tra i politici stessi, che lamentano la scarsa partecipazione dei cittadini alla vita pubblica.
Però non fanno molto per cambiare lo stato di cose, per la verità. Come prendere esempio dai nostri vicini che manifestano molto meno questi problemi.
Felice eccezione, per molti aspetti, è infatti la vicina Svizzera.
Non solo infatti in quel paese vi è un generale apprezzamento delle istituzioni e dei rappresentanti che le abitano, ma nelle classifiche internazionali è ai vertici in moltissime classifiche, da quella dell’innovazione, alla qualità delle università e della vita in generale, a quella sulla libertà economica. Un paese dove è alto tanto il tasso di occupazione che il salario medio, e dove vi è la minor differenza tra i salari più alti e quelli medi. Dove la pressione fiscale è bassa, così come il debito pubblico, ma i servizi pubblici sono di alta qualità.
Tutti fattori che sono unanimemente attribuiti al particolare sistema istituzionale che regge questo paese. Un raffinato mix tra federalismo, democrazia rappresentativa e democrazia diretta.
Quando, dopo il periodo Napoleonico, anche la Svizzera ha riformato le proprie istituzioni sulla base liberale che aveva scosso il mondo sulla scia dell’illuminismo e della rivoluzione industriale.
La base istituzionale che venne presa come esempio fu quella degli Stati Uniti d’America. Era una costituzione federale, ottimo esempio per la Svizzera, e repubblicana, indispensabile per un paese che era sempre stato allergico a monarchi di qualunque natura.
Di quella costituzione, oltre ai principi di libertà individuale e dei diritti civili, venne ripresa anche l’assoluta separazione tra tre poteri classici dello stato, con una importante variazione.
L’avversione al potere concentrato in una sola persona, tipico della Svizzera, ne ha fatto l’unico esempio di governo direttoriale tra le democrazie occidentali. Ossia il governo è composto, a livello federale, da sette membri, e agisce come organo collegiale. Tutti i membri hanno uguale peso nelle decisioni del governo, anche se ciascuno è a capo di uno dei sette dipartimenti federali in cui è divisa l’amministrazione. Annualmente è designato un presidente, che ha unicamente compiti di rappresentanza della federazione.
Altra cosa particolare è che, per il metodo utilizzato per la loro nomina da parte del parlamento, i sette consiglieri federali appartengono a partiti differenti. La loro distribuzione è determinata dal c.d. numero magico, che a oggi assegna due consiglieri ai socialisti, due ai liberali-radicali e uno ciascuno al partito popolare democratico, al partito borghese democratico e all’unione di centro.
Anche livello cantonale il governo (solitamente chiamato gran consiglio) è un organo collegiale, e anche qui, sebbene eletti direttamente, i membri del governo possono appartenere a partiti differenti. Normalmente vengono eletti coloro che hanno maggiori preferenze, indipendentemente dal partito.
Altra peculiarità del sistema svizzero è il coinvolgimento diretto dei cittadini a tutte le decisioni, attraverso gli strumenti del referendum e dell’iniziativa.
Il referendum, che può essere facoltativo o obbligatorio, consente ai cittadini di approvare o respingere una legge fatta dal parlamento federale.
Il referendum è obbligatorio per esempio per tutte le modifiche della costituzione, e tenete presente che le aliquote delle tasse sono scritte in costituzione, i trattati internazionali e i decreti legge aventi effetti oltre l’anno.
Il referendum facoltativo richiede invece la raccolta delle firme dei cittadini. Se 50.000 aventi diritto al voto (circa l’1% dell’elettorato) o otto cantoni lo chiedono entro 100 giorni dalla pubblicazione della legge, tale legge (o anche alcuni decreti del governo) vengono sottoposti a referendum ed entrano in vigore solo se approvati dal popolo.
L’iniziativa popolare invece permette a 100.000 aventi diritto al voto di chiedere una modifica totale o parziale della costituzione. Le firme devono essere raccolte entro diciotto mesi.
Il parlamento può presentare un controprogetto diretto o indiretto, ossia costituzionale o con legge ordinaria. Le modifiche entrano in vigore se approvate dalla doppia maggioranza di popolo e cantoni.
Non esiste il quorum.
Questo sistema di intervento diretto del popolo nel processo legislativo si è rivelato il miglior contrappeso istituzionale oggi presente negli ordinamenti della democrazia occidentale.
Gli svizzeri votano molto rispetto a noi, fino a 4 volte l’anno, e fino a 4 quesiti per tornata referendaria. Vanno a consultazione popolare comunque circa il 2% delle leggi e dei decreti, e nella maggior parte dei casi il voto segue la raccomandazione del parlamento e del governo.
Però la sola possibilità rende i politici svizzeri molto più attenti alla volontà popolare. E li rende soprattutto molto più attenti a comunicare con gli elettori sul perchè di tutte le decisioni prese.
Per l’argomento di questa serata è interessante vedere perchè in Svizzera sono stati introdotti in costituzione questi strumenti. Ed è un motivo storico.
In Svizzera, nei cantoni rurali, il governo della comunità era fatto tramite le assemblee popolari, chiamate in tedesco normalmente Landsgemeinde.
Queste assemblee popolari erano una forma di autogoverno largamente diffusa in tutto l’arco alpino. Nel nostro caso erano appunto quelle forme di autogoverno codificate nelle Carte di Regola. La principale differenza era che gli Svizzeri erano riusciti a liberarsi dei sovrani feudali, e quindi loro determinavano autonomamente le proprie tasse, e eleggevano i giudici dei tribunali.
Per altro in maniera non troppo difforme da quantoo facevano i nostri vicini dell’altopiano dei sette comuni, che hanno mantenuto una autonomia totale grazie all’alleanza con la Repubblica di Venezia.
Nel milleottocento il governo tramite le assemblee popolari era considerato la forma più avanzata di democrazia presenti in Europa.
Gli Svizzeri, pur accogliendo l’impostazione istituzionale degli esempi repubblicani americani e francesi, nonchè i principi liberali dello stato di diritto, non vollero interamente spogliarsi di quella sovranità diretta che aveva permesso loro di autogovernarsi fino ad allora, con buoni risultati.
D’altronde, se il popolo è sovrano, per quanto possa delegare le sue prerogative, deve sempre poter ritirare questa delega quando ritenga che questa venga male utilizzata.
In questo senso la previsione di principio di poter rovesciare il governo contenuta nelle dichiarazioni di indipendenza americane si sono rivelate molto meno efficaci delle concrete previsioni di democrazia diretta inserite nell’ordinamento elvetico.
Vi è da dire che tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento anche negli Stati Uniti d’America il c.d. “progressive movement” ha portato all’introduzione di strumenti di democrazia diretta in molti stati della federazione, per esempio in California. Ed è un movimento che continua anche oggi.
Noi invece, pur avendo una storia di autogoverno simile a quella Svizzera, e tra un attimo Andrea parlerà un po’ di questa storia, in particolare riguardo al comune di Lavis, ci siamo completamente dimenticati di queste nostre tradizioni.
Prima di lasciare la parola ad Andrea, vorrei leggere un estratto del discorso fatto a Guarda, nel Cantone dei Grigioni, dal Consigliere Federale Johann N. Schneider-Ammann, capo del Dipartimento federale dell’economia, della formazione e della ricerca, in occasione della festa nazionale svizzera il 1 agosto scorso.
Spiega perchè è importante che nei comuni si inizi a lavorare per rendere migliori le nostre istituzioni. In fondo è nei comuni che la gestione della cosa pubblica ci è più vicina, e dove possiamo imparare ad essere cittadini partecipi e consapevoli.
Nel nostro Paese i comuni eseguono effettivamente una funzione importantissima nell’organizzazione della vita politica. Sono le cellule germinali dello Stato. È nel comune che i cittadini e lo Stato si incontrano nel modo piú diretto e piú intenso. È qui che prende forma la relazione tra il singolo cittadino e la comunità.
La politica a livello comunale è d’importanza capitale poiché è garante di stabilità, di forza e di resistenza per l’intero sistema politico.
Grazie al principio che si delega verso l’alto quel che non si può risolvere al livello sottostante, il nostro Stato può cosí restare snello e flessibile. Questo sistema però permette anche di intervenire nel modo piú efficiente quando è necessario. “Vicino al cittadino” non è quindi un’espressione priva di senso. In altre parole, il pericolo di essere scavalcato da una burocrazia bernese anonima è estremamente limitato nel nostro sistema decentralizzato.
Un tale sistema politico in cui la base è un riferimento ha prodotto una dinamica che noi spesse volte sottovalutiamo. Esso garantisce la partecipazione. Partecipazione è sinonimo di confronto di idee, di discussione. Il nostro sistema, di cui la sussidiarietà è un elemento costituente, ha generato una cultura della discussione politica volta in primissimo luogo alla ricerca di soluzioni. È la cultura della discussione della base, una cultura della discussione ma anche della decisione, che protegge in particolare le minoranze, siano esse linguistiche, religiose o politiche. Da noi si presta ascolto alle minoranze. Da noi le minoranze sono prese sul serio, da noi le minoranze contano.
Questa cultura della discussione è il cemento nel nostro sistema politico, che impedisce agli interessi del singolo di prevalere sul benessere del Paese, il cemento che rende possibile il compromesso. Il compromesso gode sovente di cattiva fama perché sembra essere una via d’uscita insipida di fronte a un problema, una mezza misura e quindi un segno di debolezza.
Il compromesso non è affatto questo. È il risultato di un dialogo fruttuoso, durante il quale si è dibattuto per arrivare alla miglior soluzione di un problema. In questo risultato non c’è un vincente e un perdente bensí la soluzione accolta da tutti.
Lo sappiamo tutti: non c’è una sola risposta a una domanda, il mondo non è solo bianco e nero. Una cultura della discussione improntata al compromesso permette di far passi avanti. Essa permette di tener conto di proposte utili provenienti da tante parti cosí da giungere a un risultato condiviso da tutti. Dobbiamo avere a cuore questa cultura tipicamente svizzera di partecipazione politica, che dà sempre buoni frutti. Non permettiamo che la discussione politica diventi una prova di forza tra chi dice „o cosí … o cosí” e chi dice „tutto o niente”. Coltivare un simile modo di discutere va a scapito di membri importanti della nostra società: le minoranze.
E sono proprio loro, le minoranze, che spesso indicano, con idee buone e sorprendenti, la via d’uscita da una situazione complessa. Nonostante i conflitti sempre piú frequenti fra i partiti, impegnamoci a mantenere intatto lo zoccolo duro dell’unanimità sulle questioni fondamentali.È il consenso che ha reso forte la Svizzera. Facciamo sí che la Svizzera mantenga salva la sua capacità a trovare il consenso, anche se i problemi diventano piú difficili e le risposte piú complesse. Siamo riusciti a realizzare molte cose nel nostro Paese. L’agricoltura è forte e l’industria in crescita. Inoltre da noi c’è praticamente la piena occupazione. Le cose vanno bene.
Ma non dobbiamo però addormentarci sugli allori. Come tutti sanno, chi si ferma retrocede.
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